Si sente spesso dire che la Fisica non cambia se si inverte la freccia del tempo. Ne ho anche parlato di recente in un articolo sulla gravità.
La nostra esperienza quotidiana però è ben diversa: un cubetto di ghiaccio si scioglie se esposto a una temperatura più alta, e anche abbassando di nuovo la temperatura l’acqua si solidificherà, ma non riassumerà mai la forma iniziale. Fatti analoghi a questo, da millenni, ci hanno convinto che esista una direzione ben definita del tempo, un passato realizzato e un futuro da realizzarsi. La morte ne è solo l’esempio emotivamente più eclatante.
Come conciliare le due cose?
Come possiamo dire che le leggi della fisica sono in gran parte soddisfatte sia dalle equazioni con il tempo normale, sia dalle equazioni con il tempo invertito (), ma poi rimangiarci tutto e dire che in realtà il mondo funziona in una sola direzione e mai in quella opposta?
Il problema è il calcolo
Immagina una scatola che contiene N particelle che interagiscono tra loro in maniera molto complicata. In linea di principio, tramite la Fisica saremmo in grado di calcolare posizioni e velocità di tutte le particelle a ogni istante di tempo (ricorda: 3 coordinate spaziali per ciascuna dato che viviamo in un mondo tridimensionale, e 3 coordinate per la velocità per lo stesso motivo).
Ad esempio siamo interessati a questo problema: tracciando una linea immaginaria che divide in due parti la scatola, vorremmo capire quante particelle staranno a destra e a sinistra di questa linea in un certo intervallo di tempo in cui ci mettiamo ad osservare la scatola.
In totale quindi abbiamo da calcolare coordinate di cui vogliamo sapere l’andamento nel tempo per poter predire dove si troverà ciascuna particella. Ognuna di queste coordinate potrebbe essere dipendente da qualsiasi altra per via delle interazioni tra le particelle, e il problema diventa immediatamente molto complesso dal punto di vista del calcolo numerico.
Come rimedio possiamo fare delle assunzioni ragionevoli. Si tratta di buonsenso. Si preferisce ottenere la massima resa con il minimo sforzo (essendo il mondo dannatamente complesso di per sé).
Anzitutto semplifichiamo il problema, per capirci meglio. Trattiamo solo 2 particelle interagenti (distinguibili tra loro).
Due particelle interagenti in una scatola. Le particelle sono distinguibili tra loro (di colore diverso).
La domanda che ci facciamo è: se osserviamo la scatola per un tempo , quanto spesso vedremo le particelle a sinistra o a destra della linea immaginaria?
Facciamo un’altra assunzione ragionevole: supponiamo che queste 2 particelle interagiscano poco, così da non turbarsi troppo a vicenda. Concentriamoci sul numero di particelle in un lato della scatola.
In un determinato lato ci potranno essere al massimo due particelle, e al minimo nessuna (, ). Può anche esserci una sola particella per lato, e dato che sono distinguibili questo può avvenire in due modi: la blu a sinistra, la arancione a destra, o viceversa.
In totale abbiamo quattro configurazioni possibili, mostrate in figura.
Dal punto di vista del numero, entrambe le configurazioni “arancione a destra e blu a sinistra, e viceversa” conducono alla stessa risposta: una sola particella in un determinato lato, . In Fisica questa proprietà è nota come degenerazione degli stati: lo stato a particelle per lato ha degenerazione pari a 2, la indichiamo col simbolo .
Siccome assumiamo che interagiscano poco, e che la scatola sia perfettamente simmetrica tra destra e sinistra, ciascuna avrà una uguale probabilità di trovarsi in uno dei due lati, ovvero (o il ).
Il fatto che si influenzano pochino ci permette di dire che la probabilità per ciascuna configurazione mostrata in figura sarà il prodotto delle singole probabilità, cioè .
Tuttavia la configurazione a una particella per lato compare due volte (degenerazione), quindi la probabilità per questa particolare configurazione è data da .
Ci sono più modi equivalenti di ottenere lo stesso stato macroscopico (), quindi è più probabile degli stati a e .
La degenerazione controlla quanto è grande la probabilità di un certo stato macroscopico.
Per fissare le idee, in generale per esprimere la probabilità di avere particelle in uno dei due lati è:
in cui, come abbiamo detto, e .
Facciamo ora un bel salto: passiamo da particelle a particelle. La probabilità di avere particelle in un lato, e nell’altro, è una generalizzazione della formula precedente:
dove adesso la degenerazione è data da:
Nota che quei punti esclamativi non sono estetici, è un’operazione chiamata “fattoriale” (, e così via. Una particolarità buffa è che per definizione ).
Ora chiediamoci: qual è la configurazione che ha la più alta probabilità di verificarsi? Il buonsenso ti avrà suggerito bene: particelle a destra ed particelle a sinistra. Se tutto è all’equilibrio, lo stato in cui metà delle particelle occupano ciascun lato è ovviamente quello che osserveremo di più nel lasso di tempo in cui stiamo monitorando la scatola.
Il punto però è il seguente: la quotidianità, la vita e l’universo stesso, sono sistemi che in generale sono fuori dall’equilibrio. Ciascun processo della nostra esistenza consiste in una transizione da uno stato fuori equilibrio a uno stato con maggiore equilibrio, in un processo che va all’infinito.
Qual è la probabilità che tutte le N particelle stiano in un solo dei due lati della scatola? Sicuramente sarà più piccola, ma perché? Semplicemente ci sono meno modi di realizzarla rispetto alle altre, in particolare c’è un solo modo! Ricorda infatti che è la degenerazione che fa aumentare la probabilità.
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Quanto sarà piccola questa probabilità? Qual è la probabilità per la configurazione a ? Poniamo nella formula data sopra:
Se è un numero molto grande, questa probabilità è insignificante. Questa è la chiave di tutto il discorso. Anche solo per la probabilità è minuscola , figuriamoci per un numero di Avogadro! ().
Immaginiamo quindi che il sistema sia inizialmente fuori dall’equilibrio, cioè che la scatola sia divisa in due parti da una paratia che teniamo abbassata. Una volta alzata la paratia, le particelle saranno libere di distribuirsi alla ricerca di un nuovo equilibrio, distribuendosi in parti eguali a sinistra e a destra.
Spontaneamente, le particelle passano da sinistra verso destra. Passato (figura sopra), e futuro (figura sotto) sono ben distinti. Nella tua vita non vedrai mai accadere il contrario.
Occhio però: non sono le leggi fondamentali della Fisica a proibirlo, queste funzionano perfettamente anche al contrario nel tempo. Lo stato con tutte le particelle a sinistra appartiene anche lui all’insieme degli stati “esplorabili” dal sistema.
Per questo motivo la configurazione in cui tutte le particelle stanno a sinistra può ricapitare, ovviamente. Tuttavia la probabilità che ciò accada è pari a come abbiamo visto, cioè estremamente piccola.
In questo senso c’è una distinzione netta tra uno stato iniziale e uno stato finale, una direzione del tempo ben distinta: le particelle non si distribuiranno praticamente mai più nella configurazione iniziale (che corrisponderebbe a un’inversione di quell’illusione che chiamiamo freccia del tempo).
Quel “praticamente” non vuol dire “impossibile”, vuole solo dire una “probabilità così piccola da essere considerabile come impossibile”.
In ciò sta la distinzione tra reversibilità delle leggi del moto e la vita reale: nel grande numero di componenti del sistema che costituisce l’universo, in questo fatto del “contare le configurazioni”, che da noi è stato chiamato per millenni, ingenuamente, “freccia del tempo”.
Bibliografia
Coniglio, A. “Reversibilità e freccia del tempo” Giornale di Fisica Vol. LXI, N.2 Lebowitz, J.L., Physica A, 194 (1993)
PS. ho scritto un libro di testo che rappresenta proprio ciò che avrei desiderato leggere all’inizio dei miei studi di Fisica teorica, per renderla accessibile agli amatori e insegnare le tecniche matematiche necessarie a una sua comprensione universitaria. Si chiama “L’apprendista teorico” , dai un’occhiata per vedere di cosa si tratta. Il libro è acquistabile su Amazon.
Matteo Parriciatu
Dopo la laurea in Fisica (2020) e la magistrale in Fisica Teorica (2023) all’Università di Pisa, fa ricerca sulle simmetrie di sapore dei leptoni e teorie oltre il Modello Standard.
È membro della Società Italiana di Fisica.
È autore del libro “L’apprendista teorico” (2021).
Nascere in Baviera nel momento di maggior splendore del Secondo Reich comportava grossi vantaggi, ad esempio le opportunità accademiche: l’Impero Tedesco era il leader mondiale nelle scienze matematiche e fisiche.
Ciò era dovuto ai sostanziosi investimenti nella struttura scolastica e nelle università, il cui effetto collaterale fu quello di dare strumenti e voce a tante personalità geniali che altrimenti sarebbero rimaste inascoltate.
Immaginiamo ora di nascere in quelle circostanze, ma al contempo essere privati di tutte queste opportunità per via del proprio sesso.
Emmy Noether: 1882-1935
Il destino della giovane Emmy Noether sarebbe dovuto essere segnato già dalla sua nascita: il ceto borghese a cui apparteneva si aspettava precisamente che diventasse una maestra di inglese e francese.
Infatti alle ragazze non era concesso di puntare all’istruzione universitaria, dovevano fermarsi qualche passo prima.
Il padre di Noether era professore di matematica all’Università di Erlangen, mentre due dei suoi tre fratelli erano scienziati. La famiglia poteva quindi dare il necessario supporto a una carriera accademica, ed Emmy non aveva alcuna intenzione di essere lasciata indietro: voleva studiare matematica.
Per completare la sua formazione pre-universitaria decise di andare ad ascoltare le lezioni all’università di Erlangen, e per fare ciò doveva chiedere il permesso a ciascun professore individualmente.
Fu così che, con tutta la caparbietà del mondo, riuscì ad ottenere il diploma di ginnasio che le permise di frequentare l’università di Gottinga (senza iscrizione, dato che alle donne non era permesso).
Anche stavolta poteva solo ascoltare le lezioni, ma senza la possibilità di partecipare. Possiamo solo immaginare la spiacevole sensazione del sentirsi completamente trasparenti, inascoltati, ogni giorno della propria esistenza. I più fortunati tra noi vivono solo occasionalmente situazioni di questo tipo, ma per Noether dovevano far parte della sua identità.
Finalmente nel 1904 l’università di Erlangen permise l’iscrizione alle donne, e Noether ottenne il dottorato in matematica nel 1907. Le venne quindi concesso di fare ricerca all’istituto matematico di Erlangen, senza retribuzione. Da allora Noether collaborò con le menti più proficue dell’epoca: Fischer, Minkowski, Klein, Hilbert (lavorò persino alla relatività generale di Einstein), ma a differenza loro Noether non vedeva un centesimo.
Non solo, doveva tenere le sue lezioni sotto il nome di Hilbert, in qualità di sua assistente, per far sì che fossero autorizzate e frequentate.
In questo astio sociale che andava a ledere la dignità personale di Noether, sarebbe stato molto comprensibile decidere di cambiare carriera.
L’articolo originale (in tedesco) di Emmy Noether, 1918.
Il fatto che lei non lo fece non dovrebbe far sentire in colpa chi invece avrebbe mollato: ognuno gioca la sua partita con le carte dategli dal destino. Noether dimostrò senza dubbio una tenacia fuori dal comune, forte della stima espressa da eminenti colleghi come Hilbert ed Einstein.
Sta di fatto che al momento giusto riuscì a far valere la sua genialità: nel 1918 dimostra un teorema che avrebbe cambiato per sempre il modo di fare Fisica Teorica.
Il teorema di Noether
L’enunciato del teorema testimonia la magnifica creatività ed eleganza di Noether, dato che può essere riassunto in sole 8 parole:
Per ogni simmetria c’è una legge di conservazione
Per comprenderne il significato facciamo un passo indietro.
La fisica studia il comportamento dei sistemi sotto particolari tipi di trasformazione.
Se a un fisico presenti un qualsiasi oggetto, la prima cosa che gli interessa è controllare come reagisce l’oggetto sotto una trasformazione.
Un esempio di oggetti che possiamo descrivere con una proprietà di forma geometrica. A sinistra un oggetto simmetrico sotto una riflessione attorno al suo asse verticale, a destra un oggetto asimmetrico sotto la stessa trasformazione.
Questo atteggiamento è tipico della Scienza: si prende un oggetto e se ne verifica il comportamento sotto alcune trasformazioni, perché nei secoli si è capito che questo è il miglior modo per studiare il mondo che ci circonda.
Un esempio tipico di trasformazione è la rotazione spaziale: si tratta di ruotare gli oggetti attorno a qualsiasi asse passante per essi. Una volta effettuata la trasformazione ci si può chiedere quali proprietà dell’oggetto si vogliono indagare.
Ad esempio puoi prendere in mano il tuo telefono ed elencarne alcune proprietà:
La prima proprietà può essere quella ontologica: il telefono è un telefono perché è costruito in modo da funzionare come un telefono.
La seconda proprietà può essere funzionale: la facciata del telefono ha funzione di touchscreen, mentre il retro non ha questa funzione.
Una terza proprietà può essere la forma geometrica: un telefono è rettangolare.
Eseguiamo una trasformazione: ruotiamo il telefono di 180 gradi rispetto al suo asse verticale, cioè giriamolo in modo che ora il retro sia rivolto verso di noi.
Una volta ruotato il telefono possiamo chiederci: come sono cambiate le proprietà che avevamo elencato?
La prima proprietà non può variare: un telefono rimane tale indipendentemente da che angolo lo guardi.
La seconda proprietà varia, perché ora non puoi usare il touchscreen sul retro.
La terza proprietà non varia: un telefono rimane di forma rettangolare anche se ruotato.
Possiamo quindi classificare il telefono come un oggetto le cui proprietà variano in questo modo sotto una rotazione spaziale di 180 gradi attorno al suo asse verticale. I fisici teorici lavorano così.
Se una certa proprietà rimane uguale a se stessa sotto una trasformazione, diremo che quella proprietà è una simmetria sotto quella trasformazione.
La simmetria è una “immunità” a una certa trasformazione.
La forma geometrica di una sfera è simmetrica sotto qualsiasi rotazione.
Facciamo un altro esempio. Consideriamo la sfera in figura, caratterizzata da un simbolo a forma di stella sulla sua superficie. Questa sfera può essere caratterizzata da due proprietà: la sua forma geometrica e la posizione della stellina. Potremmo classificare questo oggetto chiamandolo anche “sfera con una stellina in alto a sinistra”.
È intuitivo che sotto qualsiasi rotazione la sfera rimanga una sfera ai nostri occhi, ma la proprietà “stellina in alto a sinistra” cambia in base al tipo di rotazione. Ad esempio se riflettiamo la sfera attorno al suo diametro orizzontale, ora la proprietà cambierà in “sfera con stellina in basso a sinistra”.
La lezione da portare a casa è che non tutte le proprietà con cui possiamo descrivere un oggetto rimangono invariate sotto una trasformazione, e non c’è nulla di male in ciò.
Una simmetria va sempre riferita al tipo di trasformazione effettuato.
Possiamo dire che una sfera è simmetrica sotto rotazione, ma non possiamo dire che “sfera con stellina in alto a sinistra” rimane simmetrica sotto qualsiasi rotazione, ma magari solo per rotazioni di 360 gradi.
La conservazione nel teorema di Noether
Una classe speciale di trasformazioni in fisica sono le traslazioni. Possiamo considerare un certo sistema e segnare la sua posizione tramite degli assi cartesiani. In questo modo possiamo elencare alcune proprietà: ad esempio la massa dell’oggetto e la sua interazione con l’ambiente circostante, il suo moto ecc.
Per essere concreti consideriamo una particella in uno spazio completamente vuoto e identico in ogni suo punto.
Una particella in uno spazio completamente vuoto e identico in ogni suo punto.
Siccome lo spazio è vuoto ed identico in ogni suo punto, se spostiamo la particella in un altro punto le sue proprietà di moto non possono variare, altrimenti significherebbe che una qualche posizione spaziale è più speciale di altre, in contraddizione con l’ipotesi di spazio identico.
Non solo la proprietà di “particella” rimane invariata sotto la traslazione spaziale, ma anche le sue proprietà di moto.
La simmetria delle proprietà di moto viene chiamata quindi “conservazione” di una certa quantità, che in questo caso è la quantità di moto: una particella, come ci diceva Galileo, prosegue indisturbata nel suo moto rettilineo in assenza di forze, o rimane ferma se era già ferma.
Se invece ci fosse una forza, generata da una sorgente localizzata nello spazio, allora perderemmo l’equivalenza dei punti spaziali: non può esserci conservazione della quantità di moto, perché la quantità di moto varia in base alla forza applicata.
Non tutte le proprietà rimangono simmetriche sotto una certa trasformazione.
Supponiamo però che ora la sorgente di forza abbia una simmetria circolare, cioè che la forza sia la stessa lungo una circonferenza immaginaria centrata attorno alla sorgente.
In tal modo abbiamo ottenuto una simmetria sotto rotazioni attorno all’asse della sorgente. Per via di questa simmetria la traiettoria della massa è influenzata allo stesso modo indipendentemente da che angolo formi rispetto alla posizione della sorgente, ciò consente la conservazione di un’altra proprietà di moto: il momento angolare.
Abbiamo perso la conservazione della quantità di moto, ma abbiamo guadagnato la conservazione del momento angolare, che nasce da un’altra simmetria del sistema sorgente-particella.
Il pattern è chiaro: una certa simmetria spaziale di un sistema fisico genera la conservazione di una certa proprietà del suo moto, e questo è il contenuto del teorema di Noether: le leggi di conservazione nascono dalle simmetrie.
Come ci ha insegnato Einstein con la Relatività Generale, se consideriamo le traslazioni spaziali dobbiamo quindi considerare anche le traslazioni temporali e studiare le trasformazioni dei sistemi fisici sotto tali traslazioni.
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Il principio di conservazione dell’energia nasce proprio dalla simmetria sotto traslazioni temporali: se le interazioni di un sistema non variano nel tempo, deve conservarsi il suo contenuto energetico.
Energia e quantità di moto sono quindi due proprietà di un sistema che rimangono invariate sotto una traslazione temporale per la prima, e spaziale per la seconda.
Ciò aprì le porte alla fisica delle simmetrie, che ha permesso la classificazione di tanti tipi di interazione, con le relative particelle mediatrici. Infatti molti oggetti della fisica vengono classificati semplicemente in base a come trasformano: il modo che abbiamo di distinguere un processo di interazione da un altro è proprio osservarne il comportamento sotto trasformazioni. Nel tempo sono state studiate varie simmetrie:
La simmetria di inversione spaziale.
La simmetria di inversione temporale.
La simmetria sotto cambi di coordinate.
La simmetria sotto cambi di sistemi di riferimento inerziali.
….
e da ciascuna (o da gruppi) di queste simmetrie è nata una teoria capace di spiegare i risultati sperimentali. Ad esempio la richiesta di simmetria di alcune quantità fisiche sotto un cambio di coordinate tra due sistemi in moto uniforme ha condotto alla relatività di Einstein. Oggi le nuove teorie della fisica delle particelle vengono costruite sui princìpi di simmetria.
Da tutto ciò si intuisce l’impatto colossale del teorema di Noether sulla Fisica Teorica: la matematica tedesca ha cambiato il nostro modo di pensare, rendendolo sorprendentemente elegante.
PS. ho scritto un libro di testo che rappresenta proprio ciò che avrei desiderato leggere all’inizio dei miei studi di Fisica teorica, per renderla accessibile agli amatori e insegnare le tecniche matematiche necessarie a una sua comprensione universitaria. Si chiama “L’apprendista teorico” , dai un’occhiata per vedere di cosa si tratta. Il libro è acquistabile su Amazon.
Matteo Parriciatu
Dopo la laurea in Fisica (2020) e la magistrale in Fisica Teorica (2023) all’Università di Pisa, studia simmetrie di sapore dei leptoni e teorie oltre il Modello Standard.
È membro della Società Italiana di Fisica.
È autore del libro “L’apprendista teorico” (2021).
Scoperte verso la fine del 1915, le equazioni di campo di Einstein della Relatività Generale rappresentano uno dei risultati intellettuali più importanti della nostra civiltà.
Le equazioni di campo di Einstein per la Gravità (1915).
Queste equazioni descrivono la Gravità in maniera completamente differente dalla legge di gravitazione newtoniana.
La Gravità di Newton è quel fenomeno a cui attribuiamo il moto, nello spazio e nel tempo, degli oggetti che si trovano nei pressi di altri oggetti massivi.
Per Einstein, la Gravità non è un fenomeno di per sé. Lo spazio e il tempo diventano quantità dinamiche, modificabili dalla materia che li riempie. A sua volta, la materia non può fare altro che muoversi nello spazio e nel tempo, con un moto dettato precisamente dalla geometria dello spazio e del tempo.
Parliamoci chiaro: lo spazio-tempo non è un fluido che interagisce con la materia, non è un qualcosa di tangibile, è ancora più pazzesco di così.
Lo spazio-tempo è una collezione di eventi a cui ogni corpo è fondamentalmente legato, perché è con gli eventi che capiamo la realtà. È il nostro modo di comprendere il mondo: “quell’oggetto stava lì, a quell’ora del giorno”. Dal punto di vista matematico interpretiamo la collezione di eventi come una iper-superficie geometrica in quattro dimensioni (3 spaziali e 1 temporale). È questa la grande intuizione di Einstein.
Le equazioni di Einstein dicono come questa iper-superficie reagisce alla presenza di massa ed energia. Il concetto è semplice, ma le equazioni sono abbastanza complicate.
È quindi mia intenzione decodificarle per dimostrare come funzionano anche ai non-esperti del settore.
Per iniziare la decodificazione, concentriamoci sul cosa e sul come: cosa stiamo cercando di risolvere con queste equazioni? E come lo stiamo cercando?
Decodificazione: cosa stiamo cercando?
Siccome è difficile disegnare le iper-superfici a 4 dimensioni, concentriamoci su 3 dimensioni per fissare le idee. Considera questa figura:
Matematicamente, come fai a descrivere questo spazio? Immagina che questo fosse, in origine, un lenzuolo. Un lenzuolo disteso in uno spazio tridimensionale. Il lenzuolo, di per sé, ha due dimensioni (lunghezza e larghezza, se trascuri lo spessore), ma vive in uno spazio tridimensionale in cui possiamo giudicare se il lenzuolo è curvo verso l’alto o verso il basso, proprio come nella figura.
Prendi un pennarello e disegna due punti A e B su questo lenzuolo, come nella figura seguente:
Prendi un sistema di assi cartesiani e , come si fa a scuola: qual è la distanza più preve tra e ? Naturalmente è data dal teorema di Pitagora
dove e . Questa è chiamata geometria piatta di uno spazio, è tutto liscio, nessun rigonfiamento, nessuna depressione. Nelle coordinate e vale sempre:
Questa quantità si chiama metrica ( significa per molto vicino ad , cioè distanze molto piccole). I coefficienti davanti agli elementi e (che sono pari a come vedi) si chiamano coefficienti della metrica, che è indicata come un oggetto a quattro componenti: . Siccome non ci sono termini misti del tipo diremo che questi hanno coefficiente zero davanti a loro. La metrica è un modo molto comodo di riassumere i contenuti geometrici di uno spazio.
Coefficienti per la metrica del lenzuolo.
In questo caso abbiamo , , .
Se adesso pieghi il lenzuolo (ti è concesso stiracchiarlo sfruttandone l’elasticità), vedrai i punti precedentemente disegnati cambiare la loro posizione relativa. In uno spazio curvo la metrica ha un’espressione ben diversa da questa che abbiamo appena scritto.
Potremmo essere interessati a capire come varia questa metrica da punto a punto: quanto rapidamente si inclina verso l’alto? Quanto si inabissa? Potremmo chiederci: quanto varia in vista di un leggero spostamento nella direzione ? Il cambiamento della metrica lo indichiamo con .
Il simbolo significa un cambiamento molto piccolo, nella direzione di , tenendo la coordinata inalterata. Un modo ancora più conciso di scrivere è con il simbolo .
Un piccolo check: se la metrica è piatta posso spostarmi nella direzione o quanto voglio, ma lei non cambierà, non si innalza e non si inabissa, quindi e .
Questo è il punto più importante che serve per capire le equazioni di Einstein.
Esiste una quantità chiamata “curvatura dello spaziotempo” la quale è una combinazione non lineare di termini come , , per le tre dimensioni spaziali, e per la dimensione temporale indicata col simbolo . Le informazioni sulla curvatura sono racchiuse in simboli che indichiamo con e :
Ora il simbolo sta a significare “come varia la variazione della metrica”?Allo stesso modo in cui l’accelerazione ci dice come varia la variazione della posizione (cioè come varia la velocità).
Einstein voleva un’equazione che esprimesse la seguente frase: “questa distribuzione di massa ed energia fa sì che la metrica varii da punto a punto (tramite ) in questo modo qui. Sai trovare la metrica che risponde di tale variazione come descritto qui?”.
Le equazioni di Einstein descrivono come varia la metrica: se conosci come varia, sai anche trovare la metrica stessa, e se conosci la metrica, conosci il moto di tutti i corpi che sono contenuti nello spaziotempo.
Decodificazione: i due membri
Concentriamoci ora sulla distinzione visiva. Un’equazione serve per trovare qualcosa in funzione di qualcos’altro. Pensa a , significa: sai trovare quel numero tale che il suo quadrato faccia ?
La situazione è molto simile: sai trovare quegli oggetti geometrici dello spazio-tempo tali che combinati in questo modo si ha uguaglianza con il contenuto di materia ed energia?
La materia-energia è contenuta nell’oggetto , mentre è una semplice costante matematica. D’altra parte e sono la velocità della luce e la costante di gravitazione universale di Newton, rispettivamente.
La risposta a questa domanda permette di conoscere la curvatura dello spaziotempo in ogni suo punto.
Perché sono chiamate “equazioni” di Einstein, se di equazione se ne vede effettivamente solo una?
In realtà è un modo furbo e sintetico di rappresentarle. L’oggetto , come visto nell’esempio del lenzuolo, ha in realtà tante componenti. In due dimensioni spaziali ( e ) era un oggetto a quattro componenti. Qui abbiamo componenti effettive (sarebbero , ma alcune sono uguali ad altre, quindi il numero si riduce per simmetria), ad esempio etc.
Dobbiamo quindi leggere l’equazione di Einstein come ben uguaglianze indipendenti tra loro!
È perfettamente analogo a quel che si fa con i vettori della fisica di Newton: l’equazione nelle tre dimensioni spaziali sono tre equazioni distinte:
Volendole descrivere con un formalismo più vicino a quello delle equazioni di Einstein, possiamo indicarle con la seguente notazione: dove è un indice che scorre sui tre assi cartesiani . Ricordando poi che l’accelerazione è la variazione della velocità nel tempo , che a sua volta è la variazione della posizione nel tempo , potremo indicare con se è la posizione nell’asse , o .
Le equazioni di Einstein hanno un significato concettuale simile. Nel caso di Newton ci interessa trovare lo spostamento in funzione del tempo, nota la distribuzione di forze e la massa del corpo. L’equazione chiave per trovare ciò ci dice “sapendo che lo spostamento varia in questo modo, data la forza, trova lo spostamento ad ogni istante di tempo“.
Nel caso di Einstein le equazioni dicono “sapendo che la metrica varia in questo modo, data la sorgente, trova la metrica in ogni punto dello spazio“. E sono esprimibili in una maniera abbastanza analoga:
In realtà l’informazione contenuta è molto più ricca. Conoscendo (la materia e l’energia presenti nello spaziotempo) possiamo trovare la forma dello spaziotempo (contenuta in ). Tuttavia la conoscenza di questa forma ci dice pure come si muoveranno massa ed energia.
La materia dice allo spaziotempo come curvarsi, e lo spaziotempo dice alla materia come muoversi
J.A. Wheeler
Un esempio molto semplice di sorgente massa-energia si ha nel caso di fluido perfetto in equilibrio termodinamico. Un fluido perfetto è caratterizzato dalla sua densità volumica e dalla sua pressione . Il tensore ha la seguente forma:
Inserendo nelle equazioni di Einstein è possibile risalire alla struttura dello spaziotempo , in riposta alla presenza di questo fluido!
Come mai le equazioni hanno questa forma?
Le equazioni di campo di Einstein hanno una forma poco familiare rispetto alle quantità che si maneggiano di solito in fisica classica. Per realizzare matematicamente quello che Einstein voleva esprimere, e cioè che la fisica non deve dipendere dalle coordinate di chi la sta studiando, era fondamentale che le equazioni per lo spaziotempo fossero tensoriali.
La metrica è un tensore. La sorgente di massa-energia è un tensore.
Un tensore è un oggetto matematico che permette di scrivere equazioni che non dipendono dalle coordinate utilizzate, grazie alla sua proprietà di trasformazione sotto cambiamenti di coordinate.
Questa richiesta complica terribilmente le equazioni della teoria, ma le rende infinitamente eleganti, perché assumono carattere di universalità: sono valide per tutti.
Non importa che coordinate utilizzi per studiare la Gravità: sarà sempre una manifestazione della curvatura dello spaziotempo, studiabile nelle coordinate che più ti tornano comode.
Le equazioni di Einstein sono ENORMEMENTE complicate da risolvere, anche nei casi più semplici. Si tratta di equazioni differenziali alle derivate parziali e non lineari, la cui soluzione analitica si conosce solo per un ristrettissimo numero di situazioni altamente semplificate e simmetriche (per tutto il resto, ci sono i computer).
Ad esempio, concentrandoci sullo spaziotempo vuoto attorno a una distribuzione di massa a simmetria sferica, il lato destro delle equazioni di Einstein è nullo dato che
La metrica che risolve questa equazione (oltre alla soluzione banale di metrica piatta) è data da:
in cui è la distanza dalla sorgente di massa , è una coordinata angolare, ed è definito come raggio di Schwarzschild. Il primo termine in alto a sinistra è , la componente puramente temporale (chiamato anche ), mentre sulla diagonale abbiamo e , altrimenti indicati con .
Per valori della distanza vicini al raggio di Schwarzschild, uno dei termini della metrica () diventa molto grande perché stiamo dividendo per un numero molto vicino a zero. La curvatura dello spaziotempo aumenta sempre di più man mano che la nostra distanza dalla sorgente diminuisce.
Rappresentazione bidimensionale della metrica di Schwarzschild.
Questa metrica è un esempio di soluzione delle equazioni di Einstein: descrive lo spaziotempo attorno a una massa . Ad esempio lo spaziotempo attorno al Sole ha una struttura di questo tipo. Anche lo spaziotempo attorno alla Terra ha questa struttura. Anche lo spaziotempo attorno a un buco nero.
Dove si nasconde Newton?
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La Gravità di Einstein è una versione ultra-sofisticata della Gravità di Newton, in cui i concetti di spazio e tempo si uniscono e diventano dinamici. Nel mondo di Einstein, il tempo è relativo, la velocità della luce è un limite universale, e non esiste l’azione istantanea delle forze, ma tutto deve essere mediato dai campi.
Come faceva Einstein a sapere di aver ragione? Beh, la sua teoria doveva anche essere in grado di riprodurre due secoli di successi della gravitazione di Newton. Scrivendo l’accelerazione come la legge di Newton per la gravitazione di un corpo attorno a una massa è
L’accelerazione non dipende dalla massa del corpo che cade. Come sai, tutti i corpi accelerano allo stesso ritmo, a parità di distanza dalla sorgente. Questa è una caratteristica unica della Gravità, e ad Einstein venne in mente che proprio per questo motivo la Gravità non è una forza, ma il risultato del moto in uno spaziotempo curvo: tutti i corpi dell’universo si muovono su traiettorie di caduta libera nello spaziotempo, chiamate geodetiche.
Una volta nota la metrica dello spaziotempo, sai come si muoveranno gli oggetti nello spaziotempo.
Nel contesto einsteiniano una geodetica è una traiettoria nello spaziotempo che soddisfa la seguente equazione:
La lettera è un indice che scorre tra i valori .
Espressione che mette un po’ d’ansia se vista per la prima volta, lo ammetto. Sappi solo che serve a trovare una traiettoria nello spaziotempo. Lo spaziotempo è contenuto dentro il simbolo : la metrica (e la sua variazione) è proprio contenuta dentro . Per questo motivo Wheeler diceva che lo spaziotempo dice alla massa come muoversi.
La Gravità di Newton si recupera richiedendo che:
le velocità coinvolte devono essere molto più piccole di quella della luce ;
la curvatura dello spaziotempo non sia troppo elevata. Ad esempio ci mettiamo a distanza , lontani dal raggio di Schwarzschild.
Così facendo, l’espressione per l’equazione delle geodetiche si approssima così (non è formalmente precisissima, ma mi serve per far rendere l’idea)
Chi è ? Guardiamo la metrica trovata sopra:
Dunque per trovare l’accelerazione basterà fare la derivata di rispetto ad . Se non sai cosa è una derivata, ti basti sapere che il calcolo produce , e che la derivata di una costante fa zero.
La velocità della luce si semplifica in quanto tutta l’equazione delle geodetiche era in realtà moltiplicata da (anche se te l’ho nascosto per semplicità). Sostituendo, il risultato è quindi:
e cioè proprio l’espressione newtoniana.
PS. ho scritto un libro di testo che rappresenta proprio ciò che avrei desiderato leggere all’inizio dei miei studi di Fisica teorica, per renderla accessibile agli amatori e insegnare le tecniche matematiche necessarie a una sua comprensione universitaria. Si chiama “L’apprendista teorico” , dai un’occhiata per vedere di cosa si tratta. Il libro è acquistabile su Amazon.
Matteo Parriciatu
Dopo la laurea in Fisica (2020) e la magistrale in Fisica Teorica (2023) all’università di Pisa, studia simmetrie di sapore dei leptoni e teorie oltre il Modello Standard, interessandosi anche di Relatività Generale.
È membro della Società Italiana di Fisica.
È autore del libro “L’apprendista teorico” (2021).
Cambio posizione per l’ennesima volta. La scalinata davanti al Palazzo Ducale di Genova non è uno dei posti più comodi per mettersi a scrivere calcoli sul tablet. La speranza è che la scomodità della situazione stimoli il cervello a produrre più di quanto farebbe a casa.
È il mio primo tentativo nel mondo della ricerca in Fisica Teorica, e davvero sento di non poter sbagliare. In qualche modo sono convinto che un ricercatore alle prime armi abbia a disposizione un solo tentativo, altrimenti è tacciato di incompetenza. Qualcosa tipo “se non ottieni risultati, almeno salvati la reputazione e non commettere errori”.
Tra le questioni da indagare nel mio lavoro ce n’è una che mi sta molto a cuore: una spiegazione teorica del perché elettrone, muone e tau (tre particelle “sorelle” da tutti i punti di vista) abbiano masse così spropositatamente diverse:
Elettrone, muone e tau, assieme al bosone di Higgs.
Rapporto massa elettrone/muone
Rapporto massa muone/tau
Questi rapporti non sono in nessun modo giustificati nel Modello Standard. È un puzzle vero e proprio nella fisica delle alte energie: perché particelle così simili in tutto e per tutto devono differire in maniera così marcata nelle loro masse?
Non che stessi provando a fare nulla di nuovo, negli ultimi 40 anni sono state pubblicate molte teorie (non verificate) in grado di spiegarlo, il punto è che il lavoro di ricerca prevedeva la risoluzione di questo puzzle in un contesto più ampio, una nuova simmetria della Natura proposta di recente: la simmetria modulare. Tale simmetria aiuterebbe a fare previsioni sulle particelle più elusive che conosciamo:i neutrini.
La simmetria modulare funziona molto bene, ma non è facile incastrarci in maniera naturale quei rapporti di massa. Questo era parte della scommessa del nostro lavoro di ricerca. Nulla di sconvolgente, ma un possibile (interessante) avanzamento in un’area molto misteriosa.
Il Sole picchia forte su quella scalinata, e man mano che si sposta nel cielo traccia un’ombra che io sono costretto a seguire per vedere meglio i miei calcoli. Nella mente riecheggiano le parole del mio supervisore, sentito poco prima in una informalissima chiamata Teams al telefono:
Quei pesi modulari possono avere un ruolo nella spiegazione dei rapporti di massa, qualcosa che non è stato ancora provato…
I “pesi modulari” sono speciali coefficienti con cui scriviamo le teorie di simmetria modulare, e sono collegati in qualche modo agli accoppiamenti delle particelle con il campo di Higgs (il quale dà massa alle particelle, come sai). Detto in maniera spiccia: un peso diverso corrisponde a un accoppiamento più o meno forte con il campo di Higgs, per via di interazioni che avvengono a energie altissime con altri campi ad oggi sconosciuti.
Il mio obbiettivo è quello di spiegare con lo stesso modello sia i rapporti di massa di queste tre particelle, sia alcuni parametri fondamentali nelle oscillazioni dei neutrini. La maggior parte dei modelli “modulari” in letteratura riesce a fare solo la seconda cosa.
Provo quindi tutte le combinazioni possibili di pesi da assegnare. Dai! Elettrone, muone e tau, da qualche parte dovrete pur distinguervi l’uno dall’altro. Nessuna strada mi convince, forse perché cerco di essere più ortodosso possibile: non sia mai che proponga una mia idea originale col rischio di metterci la faccia e fallire quella che io penso sia la mia unica chance.
Tra un calcolo e l’altro, le ore scorrono a una velocità impressionante: un soleggiato (ma freddo) pomeriggio autunnale inizia a volgere al termine.
Sono sempre stato uno studente più “visivo” che “logico” quando si tratta di conti, cerco anzitutto analogie e somiglianze tra i simboli. Spesso funziona, e se funzionasse pure stavolta?
Mi intestardisco su un’idea: e se dessi dei pesi diversi a queste tre particelle? Provo varie possibilità, decisamente alla cieca.
Verso il tramonto, inizio a notare un pattern nei miei calcoli. Un’assegnazione di pesi modulari pare riprodurre la gerarchia di masse correttamente. La mia testardaggine con quei calcoli pare premiarmi. Ho tentato un approccio un po’ meno ortodosso, ma sì sai forse che quasi quasi è anche…originale?
Il cuore salta un battito. Che bella la verginità del ricercatore alle prime armi: basta così poco.
Rialzandomi da quella scalinata, mi accorgo di aver perso sensibilità alle gambe dopo averle pressate per almeno 4 ore sul marmo fresco. Mentre sto perdendo l’equilibrio penso: l’mportante è non far cadere il tablet, no quello è troppo importante. Ovviamente per quello che ci sta scritto dentro.
Sono così paranoico che decido subito di mandare al mio supervisore una mail con le paginate che ho scritto. Paginate illeggibili, dunque inutili per chiunque non fosse me, ma dovevo in qualche modo salvarle. Potevo sempre essere rapito o finire in un tombino nella via di casa…e quelle pagine non avrebbero mai visto la luce del giorno.
Il tempo di allontanarmi dal Palazzo ed arriva una telefonata su Teams, è lui.
Nel momento in cui finisco la chiamata mi ritrovo quasi dall’altra parte della città. Nell’euforia ho percorso tutto viale XX settembre. Sono convinto di essermi giocato la mia unica carta da fisico teorico, e che forse è quella vincente.
Ricordo bene quella sensazione mistica: mi sentivo davvero in comunicazione con le leggi della Natura, la stessa sensazione che mi ha sempre attratto alla Fisica. Le parole entusiaste del mio supervisore mi hanno folgorato.
Quella chiamata su Teams ha però esaurito le ultime energie vitali del mio telefono. Un’ottima occasione per riflettere su quanto fatto, in solitudine, per riprendersi dallo shock.
Camminando, l’euforia lascia il posto a una strana sensazione di sollievo: penso “fiùu, per fortuna me la sono giocata bene questa carta, ora posso essere preso sul serio“. Subentra anche una certa ansia da prestazione: ora che ho mosso bene il primo passo, ci si aspetta che azzecchi pure il prossimo? E così via, senza fine? Quasi toglie un po’ di sapore a quella che penso essere la vita del ricercatore.
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Quella notte non riesco a prendere sonno, vorrei sia subito mattina per ritornare a lavorare, e magari scrivere in bella copia quei risultati preliminari.
Ma, come a volte mi capita (specialmente dopo aver dato un esame scritto) la notte è portatrice di lucidità divina. Inizio ad avere dei sospetti su quello che ho fatto, così mi alzo e mi presento in salotto, illuminato al chiaro di Luna, tablet in una mano e computer nell’altra. Mi rileggo un po’ di articoli su questa nuova teoria, in cerca di eventuali punti deboli nel mio ragionamento.
L’orgoglio scaturito dalla giornata mi impedisce di avere grossi dubbi, ma ho anche fiducia nella mia attività cerebrale in regime di dormiveglia: se ho accumulato qualche sospetto ho il dovere di controllare.
La città inizia a risvegliarsi, e assieme a lei il cinguettio degli uccellini del parco vicino. Fa un suono ben più forte il tonfo del mio cuore mentre realizzo che ho trascurato alcuni vincoli fondamentali nelle equazioni del modello.
Il modello che ho trovato non è corretto perché alcuni vincoli di simmetria non sono rispettati.
Tutto distrutto, tutto in malora, per via di un dettaglio.
Con mia enorme sorpresa, il tonfo non è però doloroso, somiglia più a quella sensazione che hai dopo essere sceso dalle montagne russe. Lo spavento è intenso, ma la voglia di rifarlo lo è ancora più.
In pochissimi secondi ho il vero lampo della giornata: non sono deluso, sono estasiato. Tutto ha molto più sapore, e arriva il vero sollievo.
La dolce illusione di aver trovato qualcosa di nuovo è molto più gustosa del risultato in sé. In quelle chiamate su Teams non ero entusiasta solo per l’elettrone, il muone e il tau, ma anche per la possibilità di conversare con un altro ricercatore su questioni difficili di cui nessuno sa la risposta certa.
Quella notte, in quell’istante, realizzo di essere orgoglioso di me.
Il tentare e ritentare, senza l’obbligo di dover trovare tutto al primo colpo, questa è la Ricerca. Il ricercatore può (e deve) sbagliare tanto, perché ha poi il dovere di informare gli altri su quali strade non funzionano.
Chiaramente il mio era un approccio infantile. Ma quanto spesso pensiamo di doverci giocare la carriera in un colpo solo? Quante volte rigettiamo il fallimento! Quante volte sentiamo di dover dimostrare qualcosa per darci un po’ di tregua e accettarci? Eppure, quante altre volte la ricerca del successo è ben più saporita del successo stesso?
In quell’attimo, ho capito davvero perché mi interessa la strada della ricerca.
Matteo Parriciatu
Dopo la laurea in Fisica (2020) e la specializzazione in Fisica Teorica (2023) all’Università di Pisa, studia simmetrie di sapore dei leptoni e teorie oltre il Modello Standard, interessandosi anche di Relatività Generale.
È autore del libro “L’apprendista teorico” (2021).
PS. ho scritto un libro di testo che rappresenta proprio ciò che avrei desiderato leggere all’inizio dei miei studi di Fisica teorica, per renderla accessibile agli amatori e insegnare le tecniche matematiche necessarie a una sua comprensione universitaria. Si chiama “L’apprendista teorico” , dai un’occhiata per vedere di cosa si tratta. Il libro è acquistabile su Amazon.
Si sa: più si cerca di semplificare la fisica, più è probabile incappare in incomprensioni e confusione. È quello che nello slang degli economisti si chiama “trade off” : il nostro trade off è che acquisiamo intuizione, ma sacrifichiamo la precisione. Nella fisica delle particelle la teoria dei Quark (QCD) è la teoria più complessa mai concepita, ma anche una delle più testate sperimentalmente. Divulgare questa teoria è sempre una grande sfida perché è una bestia difficile da addomesticare e si rischia sempre di risultare imprecisi o completamente in errore.
Le interazioni tra i tre quark all’interno di un neutrone. [Qashqaiilove, Wikimedia Commons]
La realtà è che c'è ben poco di intuitivo nella QCD. Tuttavia ci sono delle circostanze in cui possiamo connettere alcuni concetti con dei fatti di cui abbiamo già familiarità e intuizione nella meccanica classica.
I Quark sono (per quanto ne sappiamo oggi) i costituenti più fondamentali della materia, conferendo una struttura ben precisa agli elementi del nucleo come protoni e neutroni (i quali sono composti ciascuno da tre quark). Nonostante ciò è molto difficile intuire che protoni e neutroni siano composti da Quark! Infatti se ne osservano gli effetti solo a distanze sub-nucleari (o equivalentemente, ad energie sufficientemente elevate). Questa conversione tra energia e distanza è molto utile per capirsi nei discorsi che si fanno in questo campo di ricerca: dipende dal principio di indeterminazione moltiplicato per la velocità della luce:
il quale fornisce un ottimo modo per convertire da distanze ad energia per particelle molto energetiche. La costante fondamentale ha un valore preciso, ed è il fattore di conversione tra distanza ed energia. Invertendo la formula
ne deduciamo che grandi energie corrispondono a piccole distanze, e viceversa. Tieni a mente questa informazione perchè sarà cruciale nel discorso che andremo a fare.
Tra le quattro forze fondamentali (clicca qui per un breve riassunto), i Quark interagiscono tramite l’interazione forte. Il nome non lascia spazio all’immaginazione: a parità di distanza tra due particelle ad esempio la distanza subnucleare, l’interazione forte è 100 volte più intensa di quella elettromagnetica (che a sua volta è molto più intensa della forza debole e della debolissima forza gravitazionale) il che la rende la forza più intensa in Natura.
Così come i fotoni sono i mediatori dell’interazione elettromagnetica, i gluoni (anch’essi senza massa), sono i mediatori dell’interazione forte. Tuttavia i gluoni sono delle bestioline piuttosto difficili rispetto ai fotoni.
Cominciamo dalle similitudini: avendo massa nulla, anche i gluoni si muovono alla velocità della luce. Così come i fotoni interagiscono solo tra corpi carichi elettricamente, i gluoni interagiscono solo con particelle dotate di una speciale carica: la carica di colore. Al contrario della carica elettrica, la carica di colore è molto meno intuitiva e quantificabile, e rappresenta le “coordinate” di uno spazio astratto che caratterizza lo stato quantistico di un quark.
I fotoni interagiscono molto poco con gli altri fotoni: se fatti scontrare tra loro hanno una grande probabilità di “passarsi attraverso”. Solo a determinate scale di energia più elevate l’interazione fotone-fotone diventa non più trascurabile. Questo fatto favorisce la validità del principio di sovrapposizione delle onde elettromagnetiche, tanto caro all’ingegneria.
I gluoni, d’altra parte, interagiscono con gli altri gluoni anche a scale di energia più basse, accoppiandosi nei modi più disparati possibili. La teoria dell’interazione forte quindi non rispetta il principio di sovrapposizione: c’è ben poco di lineare e semplice nei campi gluonici.
Analogie e differenze tra interazione elettromagnetica e interazione forte. Entrambi i mediatori hanno massa nulla e si muovono quindi alla velocità della luce.
Le stranezze della forza forte non finiscono qui. Come specificato nell’immagine precedente, l’interazione elettromagnetica ha un range infinito: due cariche elettriche non smettono mai di sentire l’una la presenza dell’altra, indipendentemente dalla distanza che le separa! È l’intensità quella che varia e diminuisce con l’aumentare della separazione. Succede lo stesso con la gravità (in tal caso la carica elettrica viene sostituita dalla massa). Il potenziale gravitazionale di una massa posta a distanza da una sorgente gravitazionale fissa e di massa è proporzionale a:
Il grafico della funzione ha il seguente aspetto:
Analogamente, il potenziale elettrostatico di Coulomb percepito da una carica elettrica nel campo di una carica è
Queste funzioni di ci dicono la stessa cosa: l’interazione diminuisce all’aumentare della distanza. Dal punto di vista della fisica teorica è equivalente a dire che le interazioni diventano via via più deboli al diminuire della scala di energia, e per energie alte (cioè piccole distanze) diventano sempre più intense. Con “scala di energia” intendiamo il contenuto energetico che dobbiamo fornire al nostro esperimento per far scontrare le particelle nel nostro acceleratore.
Tutto ciò è abbastanza intuitivo: se si gioca con i poli dei geomag ci si rende presto conto che è molto difficile resistere all’attrazione di due poli opposti una volta che li si avvicina abbastanza, mentre è molto difficile avvicinare due poli uguali (in particolare più li si avvicina e più diventa difficile). Il magnetismo, naturalmente, fa parte dell’interazione elettromagnetica e si comporta proprio come ci aspettiamo.
L’interazione forte percepita dai quark è molto più controintuitiva: più i Quark sono vicini tra loro e più “si ignorano”, cioè comunicano molto meno, ovvero l’interazione è meno intensa (tutto il contrario delle interazioni a cui siamo abituati!). A questo fatto è stato dato il nome di libertà asintotica: alle alte energie i Quark si comportano come se fossero liberi. D’altra parte se allontaniamo i Quark (quindi abbassiamo la scala di energia) questi interagiscono molto di più tra loro: è la schiavitù infrarossa.
Sulla libertà asintotica Parisi è stato vicinissmo a vincere il Nobel già quando aveva 25 anni. Gli mancava solo intuire che il numero quantico giusto per descrivere l’interazione era la “carica di colore”.
Le peculiarità dei Quark
Ad oggi conosciamo 6 Quark fondamentali (cioè che non derivano da stati legati con altri Quark) a cui sono stati assegnati dei nomi precisi e di cui si conosce la massa, dal più leggero al più pesante.
I Quark up e down costituiscono la struttura interna di protoni e neutroni (nucleoni), tuttavia le loro masse contribuiscono solo a una piccola parte della massa dei nucleoni. La maggior parte della massa deriva invece dalle intricatissime interazioni e scambi energetici tra i Quark stessi, i quali comunicano incessantemente tramite gluoni.
Un’illustrazione molto schematica di quello che succede all’interno di un protone. Gli oggetti “a forma di molla” rappresentano le interazioni di scambio di gluoni.
Detto in maniera molto semplificata e fiabesca, è come se la carica di colore dei Quark accendesse la scintilla che fa scoccare un “incendio energetico” nel campo gluonico che li circonda. Questo incendio “brucia incessantemente” con un’energia che dà luogo alla maggior parte della massa del protone tramite la celebre .
È sfruttando questo inferno energetico che siamo stati in grado di creare i Quark più pesanti del up e down, facendo scontrare protoni ad altissime energie che hanno rilasciato come prodotto i Quark più pesanti come il top (l’ultimo ad essere stato scoperto, nel 1995 al Fermilab di Chicago).
Dal punto di vista teorico, le complicate interazioni tra i Quark sono una conseguenza della natura relativistica delle teorie quantistiche di campo. Uno può aspettarsi che la descrizione di queste forze diventi leggermente più semplice se usciamo dal regime relativistico (cioè se consideriamo particelle abbastanza pesanti che si muovono a velocità molto più basse di quella della luce).
A noi piace tanto semplificare, quindi questo è quello che faremo! Consideriamo alcuni Quark più ciccioni, ad esempio il bottom e il charm: un sistema molto semplice da studiare in QCD è lo stato legato di quarkonio, il quale è uno stato legato tra Quark e antiQuark. Stiamo quindi parlando, nel nostro caso, dei seguenti sistemi:
Charmonium: stato legato di Charm e anti-Charm
Bottomonium: stato legato di Bottom e anti-Bottom
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Per completezza ricordiamo che un anti-Quark è la anti-particella del Quark corrispondente: ha uguale massa e numeri quantici tutti invertiti, cioè carica elettrica, carica di colore, spin etc. invertiti.
Siccome questi due Quark sono abbastanza massivi, si muvono a velocità più basse rispetto a tutti gli altri, quindi è possibile una trattazione non-relativistica in cui possiamo ignorare i discorsi di Einstein. Stiamo parlando di un’approssimazione.
Questi stati legati sono stati osservati sperimentalmente, dunque i discorsi matematici che seguono, seppur non rigorosissimi dal punto di vista teorico, sono empiricamente verificati.
Il potenziale di Quarkonio
Se è la distanza che separa Quark e anti-Quark, l’energia potenziale di interazione è data dall’espressione (in cui e sono delle costanti di cui non devi preoccuparti)
ed ha il seguente grafico:
A piccole distanze l’interazione si comporta in modo del tutto simile a quella gravitazionale ed elettromagnetica: va giù come . Non farti però ingannare! A distanze piccolissime (cioè energie elevatissime) questo potenziale non è più una buona approssimazione di quello che sta succedendo, perché entrano in gioco gli effetti relativistici della forza forte, e la conseguenza è la libertà asintotica: invece di continuare ad aumentare infinitamente, ad altissime energie l’interazione forte inizia a indebolirsi sempre più, fino a che i Quark si ignorano del tutto.
[Nota bene: quando diciamo “piccole” o “grandi” distanze ci stiamo riferendo a qualcosa di grande o piccolo rispetto alle dimensioni subnucleari!]
D’altra parte, a grandi distanze il potenziale aumenta invece che diminuire (contrariamente a quanto succede nell’interazione gravitazionale ed elettromagnetica). Il fattore che domina questa peculiarità è parametrizzato dal termine dove è una costante e è la distanza. Questo termine ingloba tutto ciò che ci è difficile conoscere del regime di “schiavitù infrarossa”, regime che può essere studiato solo tramite ingegnose simulazioni al computer (campo di studi noto come QCD su reticolo).
Per capire di che tipo di forza si tratta dal punto di vista della meccanica classica, consideriamo un potentiale molto simile: quello di una molla! Se allunghiamo o accorciamo una molla di una distanza , il potenziale ha la seguente forma:
dove è la costante elastica. Confrontiamo ora la forma dei due potenziali nel regime di schiavitù infrarossa (cioè a distanze molto grandi in modo che il termine risulti trascurabile):
Un tipico eleastico.
Stiamo cioè confrontando una retta con una parabola: entro una certa distanza l’interazione di Quarkonio è più intensa di quella che si avrebbe se fosse puramente elastica, mentre superata una certa soglia, l’interazione elastica diventa più elevata. Quindi lo stato legato di Quarkonio a basse energie ha un’intensità che somiglia un po’ a qualcosa che richiama l’interazione elastica tra due corpi. Tuttavia, a differenza della molla, dal punto di vista classico la forza non dipende dalla distanza, mentre nella molla vi dipende come .
D’accordo, magari la molla non è un’approssimazione ottimale, ma è comunque un buon punto di partenza. In realtà è possibile dimostrare che l’andamento della forza di Quarkonio è molto più simile a quella caratteristica degli elastici! Se prendi un elastico per capelli e lo allunghi di una distanza , l’energia potentiale di richiamo che stai accumulando risulta proporzionale alla distanza , esattamente come l’energia potenziale del Quarkonio a grandi distanze!
PS. ho scritto un libro di testo che rappresenta proprio ciò che avrei desiderato leggere all’inizio dei miei studi di Fisica teorica, per renderla accessibile agli amatori e insegnare le tecniche matematiche necessarie a una sua comprensione universitaria. Si chiama “L’apprendista teorico” , dai un’occhiata per vedere di cosa si tratta. Il libro è acquistabile su Amazon.
Matteo Parriciatu
Dopo la laurea in Fisica (2020) e la specializzazione in Fisica Teorica (2023) all’Università di Pisa, studia simmetrie di sapore dei leptoni e teorie oltre il Modello Standard, interessandosi anche di Relatività Generale.
È autore del libro “L’apprendista teorico” (2021).
Immagina di reincarnarti in una particella elementare in un istante tra i e i secondi dopo il Big Bang.
L’universo ha un aspetto molto diverso da quello odierno, c’è tantissima confusione, un viavai di interazioni, come un vociare assordante. La sensazione che provi è molto singolare, sei capace di individuare solo il momento in cui “appari” e il momento in cui “scompari”, ma nemmeno riesci a distinguere l’uno o dall’altro. Il problema è che ti muovi alla velocità della luce dato che, come tutte le altre particelle dell’universo, non hai massa. Per questo la tua percezione del tempo è assolutamente insensata, in accordo con le leggi della Relatività Ristretta.
In qualche modo sembra che il momento in cui appari e scompari dall’esistenza sia sempre accompagnato dalla presenza di una particella praticamente identica a te, o almeno questo è ciò che ti ricordi.
Ora i tempi sono cambiati (cambia tutto piuttosto in fretta quando passi da a secondi dopo il Big Bang). Ti accorgi che gli eventi iniziano ad avere una forma, tra un inizio e una fine c’è anche un presente.
Sei stata “rallentata” da qualcosa, e inizi a sentire il peso dello scorrere del tempo: non ti muovi più esattamente alla velocità della luce. Tra tutto quel vociare non riesci a prendere coscienza di cosa sia successo, pare che nessuno si sia accorto troppo del cambiamento, eppure inizi a riconoscere che le altre particelle non si comportano tutte come te, alcune sembrano interagire con le altre in un modo molto diverso dal tuo.
Ti viene in mente che questo possa essere connesso con l’esistenza di almeno due interazioni fondamentali diverse.
Inizi a raccogliere qualche indizio: ogni volta che scompari dall’esistenza è sempre coinvolta almeno un’altra particella. Dopo qualche tempo sei capace di individuare che esistono altre due particelle (che chiami signor “Mu” e signor “Tau”) che fanno le stesse cose che fai tu, e anche qualche particella identica a te e che per qualche motivo fa sempre il contrario di quello che fai tu.
Il signor Ni rappresenta il neutrino elettronico.
Non appena il vociare primordiale inizia a calmarsi, inizi a distinguere uno strano ronzio nelle tue orecchie “particellari”. Somiglia giusto a un timido bisbiglio, ed inizi a capire di star rallentando sempre di più la tua corsa frenetica tra un’esistenza e un’altra, forse per via di qualcosa che genera anche questo strano bisbigliare?
Decidi di chiedere informazioni a una delle particelle simili a te. C’è una particella in particolare che abbastanza spesso decide di scambiare qualche parola con te, solo che hai difficoltà a capirla perché è leggermente più frenetica. L’hai soprannominata affettuosamente “Ni”. Di solito “Ni” sembra non avere molto tempo da perdere dietro a domande sciocche come la tua, quindi decidi di chiedere al tuo vicino, il signor Mu.
L’elettrone sente molto più debolmente le interazioni con l’Higgs, al contrario delle sue cugine e .
Il signor Mu sembra leggermente meno frenetico, e si comporta esattamente come te: avete delle personalità così identiche che quasi vi disgustate reciprocamente, quindi di solito circolate un po’ lontano l’uno dall’altra. Tuttavia hai bisogno di informazioni, e ti prometti di parlargli non appena vi scontrerete di nuovo.
Il signor Mu ammette di essere sorpreso che tu ci abbia messo così tanto ad accorgerti del ronzio, lui lo percepisce 200 volte più forte di te. Sa anche darti qualche informazione in più, perché di recente ha parlato con il signor Tau, il quale percepisce lo stesso ronzio quasi 20 volte più forte di lui.
Per il signor Tau non si tratta di un ronzio, ma di alcune interessantissime comunicazioni da parte del signor “H” , le quali lo invogliano a rallentare la sua corsa frenetica tra un punto e l’altro della sua esistenza, pur di ascoltare con maggiore attenzione ciò che il signor H ha da dirgli. Non fai in tempo a fare altre domande che il signor Mu svanisce improvvisamente, lasciando il posto ad altre particelle, tra le quali riconosci il tuo amico Ni accompagnato dalla tua copia sputata.
Rimani un po’ perplesso/a dalla spiegazione del signor Mu. Pensavi fosse abbastanza scontato che te, Mu e Tau foste particelle molto simili. Perché mai il signor H si ostina a non volerti parlare a voce più alta? Perché senti a malapena un ronzio in confronto alle interessanti disquisizioni percepite da Mu e Tau?
Perché Mu e Tau svaniscono all’improvviso dopo così poco tempo, e tu sembri restare sempre la stessa, noiosa particella?
Il tempo passa e l’universo diventa più silenzioso. Ti ritrovi sempre più vicina ad altre particelle identiche a te, e inizi a condurre un’esistenza sempre più monotona, assuefatta dalle delicate parole di un interessante signore che qualcuno chiama “Nucleo”, il quale ti invita a stargli vicino.
François Englert e Peter Higgs, premi Nobel per la Fisica 2013, tra gli inventori del meccanismo che dà la massa alle particelle del Modello Standard tramite il campo di Higgs.
Impari che anche le altre particelle identiche a te non riescono a sentire nulla più di un ronzio da parte del signor H, e quindi capisci di appartenere a un’intera famiglia di particelle che sono un po’ “discriminate“.
Questo è uno degli aspetti più intriganti del Modello Standard: il modello non spiega perché il campo di Higgs interagisce più intensamente con alcune particelle e molto, molto più debolmente con altre.
In principio l’elettrone (la particella in cui ti sei reincarnato/a), il muone il tau sono creati praticamente uguali, sono tre cugini con uguale carica elettrica, spin e altri numeri quantici di interazione. Sono distinte giusto da un “cognome” di famiglia, appunto: “e”, “” e ““.
Elettrone, Muone e Tau: le tre particelle “cugine” del Modello Standard costituiscono la famiglia dei leptoni carichi.
Dopo la rottura di simmetria elettrodebole (per la quale rimando al mio articolo), elettrone muone e tau acquistano una massa per via dell’interazione con il campo di Higgs. Come funziona? L’interazione si scrive in un modo molto simile a questo (le “interazioni” del Modello Standard sono la scorciatoia per dire che due campi appaiono moltiplicati tra loro nelle equazioni del modello, o moltiplicati per un mediatore comune ad entrambi):
Maggiore è la (chiamata costante di Yukawa), maggiore è la massa acquistata dalla particella per via del campo di Higgs.Le masse delle particelle elementari del Modello Standard. L’altezza dei parallelepipedi rappresenta la loro massa.
Il tau interagisce molto con l’Higgs, quindi la sua massa è molto più elevata di quella di muone ed elettrone. L’elettrone è quello che prende meno massa. Quanta meno? Tanta. Circa 0.3 millesimi di quella del tau, e 5 millesimi di quella del muone.
La storia non finisce qui: la particella elementare più massiva (il quark top) ha una massa che è quasi 100 volte quella del tau. Perché tutto questo “classismo” da parte del campo di Higgs? Perché sembra comunicare di più con alcune particelle e molto meno con altre?
La faccenda diventa quasi tragicomica nel caso dei neutrini (il famoso amico “Ni” della tua esperienza post-Big Bang). Si stima che la massa di un neutrino sia a sua volta quasi dieci miliardesimi di quella dell’elettrone. Questo aspetto ha suscitato uno scalpore tale da suggerire che il meccanismo di generazione della massa dei neutrini sia leggermente diverso da quello delle particelle “standard”. In particolare, il neutrino acquista massa grazie a processi sempre mediati dall’Higgs, ma che ricevono contributi da particelle non ancora osservate, che dovevano esistere da qualche parte nei primi istanti dopo il Big Bang.
Come possiamo accettare una tale differenza di trattamento? Come è possibile non restare intrigati dal carattere discriminatorio del campo di Higgs? Perché anche tra particelle praticamente del tutto simili come elettrone, muone e tau alle alte energie, c’è tutta questa discriminazione?
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Questa è una parte dei compiti della fisica teorica di questo secolo. Non penserai mica che dopo la scoperta del bosone di Higgs nel 2012 siano finiti i suoi misteri? Assolutamente no, anzi si sono moltiplicati. Il bosone di Higgs (simbolo del trionfo intellettuale della fisica teorica del secolo scorso, e del trionfo sperimentale e tecnologico del secolo corrente) è un punto di partenza, non un punto di arrivo.
Il problema della gerarchia delle masse dei leptoni carichi e dei quark rimane ad oggi un mistero per il quale sono state presentate diverse soluzioni teoriche che dovranno superare i test sperimentali del prossimo secolo. Chi vivrà, vedrà.
PS. ho scritto un libro di testo che rappresenta proprio ciò che avrei desiderato leggere all’inizio dei miei studi di Fisica teorica, per renderla accessibile agli amatori e insegnare le tecniche matematiche necessarie a una sua comprensione universitaria. Si chiama “L’apprendista teorico” , dai un’occhiata per vedere di cosa si tratta. Il libro è acquistabile su Amazon.
Matteo Parriciatu
Dopo aver conseguito la laurea in Fisica nel 2020, studia Fisica Teorica all’Università di Pisa specializzandosi in Simmetrie di Sapore dei Neutrini, teorie oltre il Modello Standard e interessandosi di Relatività Generale. È autore del libro “L’apprendista teorico” (2021).
Giusto per ricordare che i gatti sono riusciti a conquistarsi pure la meccanica quantistica, nell’immaginario popolare.
Ciò che frullava nella mia testa quando ho sentito la parola “numeri quantici” per la prima volta, durante una lezione di chimica in terza liceo, era qualcosa tipo:
“Tutto interessante e sembra anche molto logico. Giusto una cosa però: ma alla fine cosa sono 'sti numeri quantici? Proprio terra-terra, in meno parole possibili!"
Dopo aver studiato meccanica quantistica alla triennale credevo di essere praticamente pronto per dare una risposta terra-terra, a una persona non addetta ai lavori come il me stesso della terza liceo, ma poi mi sono accorto che non è tutto così “rapido”.
Non c’è NIENTE di intuitivo nel concetto di “numero quantico”.
Quando mi è stata posta la stessa domanda qualche tempo fa, nel bel mezzo dei miei studi alla magistrale, ho sputato fuori questa risposta un po’ frettolosa:
“Sono dei numeri che usiamo per catalogare delle soluzioni particolarmente semplici per risolvere problemi molto complessi. Sono utili anche perché nei processi "si conservano“, un po' come l'energia di un sistema, e semplificano quindi un po' di calcoli e previsioni."
Non è che fossi tanto convinto di questa risposta, e ancora meno lo era la persona di fronte a me. Mi sono accorto che probabilmente non sapevo dare una risposta più rapida senza coinvolgere dei semestri di algebra lineare, spazi di funzioni e fenomenologia delle interazioni fondamentali. Se a te questa risposta soddisfa: nessun problema, è comprensibile. Rende comunque l’idea da un punto di vista pragmatico.
Se invece senti ci sia un gap nella divulgazione di questi concetti e provi curiosità, allora questo articolo vuole provare a rimediare. Per raggiungere più persone possibili sarò molto conciso con ragionamenti “a grandi linee”, con varie licenze tecniche necessarie per un’esposizione di taglio divulgativo. Inoltre, per ragioni logistiche (e per non affaticare il lettore), l’articolo è suddiviso in due parti, questa è la prima parte!
Una tazza di caffè e possiamo iniziare!
Gli operatori della meccanica quantistica
Alla fine tutto l’ambaradan nasce dal fatto che la meccanica quantistica, a differenza della fisica classica, si basa su degli oggetti chiamati operatori. Come suggerisce il nome, questi oggetti operano sugli stati della teoria: prendono in input uno stato e ne restituiscono un altro come output, generalmente diverso dal primo:
Tutte le quantità che in meccanica classica erano dei semplici numeri reali (posizione, quantità di moto, energia, e così via) diventano, in meccanica quantistica, degli operatori: operatore posizione, operatore quantità di moto , operatore dell’energia (altrimenti detto “hamiltoniano”) etc.
Perché sono così necessari gli operatori? (qualsiasi cosa significhi per te in questo momento la parola “operatore”). In breve, serviva un formalismo matematico capace di spiegare un fatto sperimentale: lo stato di un sistema poteva essere completamente determinato dalla posizione di una particella, ma al contempo la misura della quantità di moto della stessa particella non restituiva un valore ben preciso. È il principio di indeterminazione di Heisenberg. Un modo per esprimere questo fatto dal punto di vista matematico era quello di trasformare posizione e quantità di moto in degli operatori lineari e scrivere che:
è la costante di Planck divisa per .
Questa relazione racchiude, in un formalismo compatto (e criptico per i non addetti) la chiave per il principio di Heisenberg su posizione e quantità di moto. La compattezza del formalismo e la facilità del calcolo sono due condizioni che spinsero i fisici ad adottare l’approccio operatoriale nella meccanica quantistica, ed è il motivo per cui la matematica di questa teoria è ritenuta essere “più complicata” di quella della fisica classica.
L’operatore più importante
Ciò che nella fisica classica rappresentava un modo alternativo di risolvere i problemi, nella meccanica quantistica diventa l’unico modo matematicamente conveniente di descrivere l’evoluzione di un sistema. Si tratta dell’energia, la quale nel formalismo quantistico diventa l’operatore hamiltoniano.
Nella fisica classica l’energia di un sistema era un semplice numero indicato con la lettera “E”. In meccanica quantistica diventa un operatore chiamato “Hamiltoniano“.
L’energia di un sistema è definita come la somma tra energia cinetica () ed energia potenziale . Coloro che prima erano semplici numeri ora diventano due operatori che, come dice il nome, “operano” sugli stati di una particella, comandandone l’evoluzione dinamica.
Ecco come si procede di solito: immagina una particella immersa in un certo spazio e sensibile a certe interazioni fisiche (elettromagnetiche ad esempio, come un elettrone in un campo magnetico, o in prossimità del nucleo di un atomo).
La seguente frase “questa particella si muoverà in questo spazio con una certa velocità e occuperà maggiormente alcune posizioni invece di altre, sulla base delle interazioni che percepisce” viene tradotta quantisticamente nella seguente:
Lo stato di una particella evolve da un valore iniziale a un valore finale grazie all’azione dell’operatore Hamiltoniano, il quale rappresenta le interazioni e il contenuto cinetico che caratterizzano il moto della particella.
Come forse avrai sentito da qualche parte, lo stato di una particella è indicato da una funzione a più valori, nel tempo e nello spazio: . Il fatto che questo stato venga trasformato nel tempo per via delle interazioni è riassunto dalla seguente scrittura molto compatta:
L’esponenziale di un operatore è lo sviluppo in potenze dell’operatore stesso, secondo la regola degli sviluppi di Taylor. Non preoccuparti di questo dettaglio matematico, l’ho messo solo per completezza.
L’operatore hamiltoniano agisce sullo stato iniziale della particella, e per ogni tempo successivo restituisce un certo stato finale.
Questa è la ricetta prescritta dalla celebre equazione di Schrödinger, la quale governa la dinamica degli stati quantistici di un sistema. Quella che ti ho mostrato è proprio la soluzione dell’equazione: Schrödinger scrisse che, una volta noto l’operatore hamiltoniano, la dinamica del sistema è nota..
Più facile a dirsi che a farsi: è difficile trovare il corretto operatore che riesca a riprodurre gli stati in cui evolvono i sistemi quantistici negli esperimenti. Trovare l’hamiltoniano giusto equivale a trovare la teoria giusta per descrivere il sistema, ed è esattamente il mestiere del fisico.
Se un fisico ha fatto bene il suo mestiere, otterrà una predizione sull’evoluzione temporale dello stato del sistema, e potrà fare previsioni probabilistiche su quale sarà lo stato in cui verrà misurata la particella a un dato istante di tempo dell’esperimento.
Gli autostati di un operatore
A differenza di uno stato normale, l’autostato di un operatore mantiene la sua direzione dopo la trasformazione, e al massimo si allunga o si accorcia.
Possiamo architettare un esperimento con lo scopo di misurare una certa proprietà della particella quantistica di cui abbiamo parlato prima. L’atto della “misurazione” consiste inevitabilmente in una “riorganizzazione” delle informazioni quantistiche dello stato della particella e anche dello stato del rivelatore che stiamo utilizzando per misurare quella proprietà.
Per via di uno dei postulati della meccanica quantistica (i quali fanno sì che la teoria riproduca quanto si osserva negli esperimenti) a ogni osservabile (sono chiamate così le uniche quantità misurabili negli esperimenti) è associato un operatore, e gli stati possibili in cui la particella può essere rivelata nell’esperimento vanno ricercati in alcuni stati molto speciali che hanno la particolarità di rimanere “quasi inalterati” sotto l’azione dell’operatore.
Per spiegarlo in termini semplici, immagina che lo stato sia una freccia nello spazio: l’operatore in generale può far compiere alla freccia una certa rotazione (il che corrisponde al trasformare lo stato in un altro stato diverso dal primo). Tuttavia alcune frecce speciali vengono trasformate dall’operatore in modo che al massimo si allungano o si accorciano, ma senza ruotare:: la direzione rimane la stessa. Questi stati speciali sono chiamati autostati.
In generale ogni operatore ha il suo set di autostati “personale”.
In sostanza gli autostati di un operatore ci semplificano la vita perché trasformano in maniera molto semplice: significa meno calcoli da fare!
Un esempio preso in prestito dalla geometria: in alcuni casi gli operatori della meccanica quantistica e le matrici sono praticamente la stessa cosa (se non sai come funziona una matrice, vai a questo articolo). Una matrice come quella di rotazione attorno all’asse z sul piano ha il compito di ruotare un vettore di un certo angolo. Siccome la rotazione si svolge attorno all’asse , la componente del vettore rimane inalterata. Il vettore di componenti viene quindi mandato in se stesso, cioè è un autovettore di questa particolare matrice di rotazione.
Il vettore viene trasformato in se stesso dalla rotazione attorno all’asse .
La scrittura che ci semplifica tanto la vita, e che ricerchiamo continuamente in meccanica quantistica, è
La costante è chiamata, in gergo, “autovalore” dell’autostato. A ogni autostato viene associato il suo “autovalore”, il suo numerino personale da utilizzare come etichetta. Possono esserci anche più autostati aventi lo stesso autovalore, ma non vedrai due autovalori diversi associati allo stesso autostato.
Questa scrittura è un vero sospiro di sollievo: l’esistenza di stati che rimangono praticamente invariati sotto l’azione degli operatori rappresenta una semplificazione incredibile per i calcoli della teoria. Invece di chiederci come trasforma qualsiasi stato dell’universo sotto l’operatore (una pretesa diabolicamente assurda), ci interessiamo solo a quegli stati che invece “cambiano molto poco”.
Il motivo di ciò va ricercato in uno dei postulati fondamentali della meccanica quantistica, già accennato sopra:
Le quantità che misuriamo sperimentalmente corrispondono agli autostati della particolare osservabile a cui siamo interessati. Lo so che suona strano e inutilmente astratto, ma è grazie a questo postulato che vengono riprodotti i risultati sperimentali.
La cattiva notizia: non tutti gli stati della teoria sono autostati dell’operatore che ci interessa.
La buona notizia: gli autostati dell’operatore che ci interessa possono essere usati come blocchetti elementari per costruire gli stati più generici della particella.
Se ti interessa la Fisica, iscriviti alla newsletter mensile! Ho pensato di scrivere una guida-concettuale di orientamento per aiutarti a capire da dove studiare.
Questo è il principio di sovrapposizione degli stati: ogni stato può essere costruito sovrapponendo tra loro tanti altri stati.
In generale conviene, anzi è proprio mandatorio, utilizzare come blocchetti elementari gli autostati dell’operatore che ci interessa. Ti conviene pensare agli autostati proprio come a dei “Lego” con cui costruire uno stato più generico possibile (la struttura fatta coi Lego è lo stato generico).
Questi autostati andranno a comporre lo stato della particella, ciascuno con un proprio peso statistico, come specificato dalle regole della meccanica quantistica (la quantistica è praticamente una teoria della probabilità, camuffata)
La tipica struttura di uno stato generico, sviluppato come somma di autostati di un certo operatore di nostro interesse. I numeri sono i pesi statistici, cioè il loro modulo al quadrato, ad esempio , rappresenta la probabilità che la particella, inizialmente nello stato generico ““, venga misurata in un ‘autostato .
Il risultato della misurazione (misurazione dell’osservabile, associata a sua volta a un certo operatore della teoria) è il famigerato, e ancora dinamicamente poco compreso, “collasso della funzione d’onda”, il quale seleziona uno degli autostati dell’operatore associato all’osservabile coinvolta:
La particella viene rivelata in UNO solo degli autostati possibili dell’operatore associato all’osservabile. Prima aveva una probabilità ben precisa di trovarsi in ciascuno degli autostati possibili, mentre DOPO la misura la probabilità di ritrovarla nello stesso autostato sarà il 100%.
ed è proprio questo a cui ci si riferisce quando si parla di “collasso della “.
Il numero che si misura nell’esperimento coincide con la costante , cioè l’autovalore dell’autostato in cui è stata rivelata la particella.
Un esempio rapido di quanto detto: un’osservabile di una particella può essere il suo spin (che sperimentalmente si misura grazie all’effetto di un campo magnetico sulla traiettoria della particella). A questo effetto osservabile è associato un operatore di spin. Se ad esempio sperimentalmente si osserva che alcune particelle possono avere solo due tipi di deflessioni in un campo magnetico allora all’operatore di spin della teoria verranno associati due autostati.
Prima di misurare la deflessione tramite l’accensione del campo magnetico, dal punto di vista della nostra interpretazione la particella si trova in una sovrapposizione di autostati di spin, e con la misurazione (l’accensione del campo magnetico) viene “selezionato un autostato” con una certa probabilità calcolabile quantisticamente.
Tutto questo discorso è importante per capire il seguito, e cioè capire perché ci interessiamo a specifici numeri quantici associati ad operatori accuratamente selezionati della teoria.
I numeri quantici non sono altro che gli autovalori di specifici operatori della teoria, accuratamente selezionati affinché soddisfino delle proprietà che ci permettono di semplificare il modo in cui possiamo fare previsioni verificabili con l’esperimento.
In ogni caso, non basta essere un autovalore di un’osservabile per essere un buon numero quantico!
Un buon numero quantico ci semplifica la vita negli esperimenti, e nella parte II di questa serie vedremo perché! (Per chi si incuriosice: ha a che fare con il teorema di una famosa matematica tedesca…)
PS. ho scritto un libro di testo che rappresenta proprio ciò che avrei desiderato leggere all’inizio dei miei studi di Fisica teorica, per renderla accessibile agli amatori e insegnare le tecniche matematiche necessarie a una sua comprensione universitaria. Si chiama “L’apprendista teorico” , dai un’occhiata per vedere di cosa si tratta. Il libro è acquistabile su Amazon.
Matteo Parriciatu
Dopo aver conseguito la laurea in Fisica nel 2020, studia Fisica Teorica all’Università di Pisa specializzandosi in simmetrie di sapore dei neutrini, teorie oltre il Modello Standard e interessandosi di Relatività Generale. È autore del libro “L’apprendista teorico” (2021).
Per capire l’entità del contributo di Enrico Fermi in ciò che servì ad ispirare una delle scoperte più importanti dell’umanità (la teoria dei semiconduttori), è necessario fare qualche passo indietro e considerare il contesto storico-scientifico dell’epoca.
Negli anni ’20 del secolo scorso si sapeva molto poco sulle strutture fondamentali della materia. Le teorie dell’atomo erano giovanissime e l’unico metodo di indagine consisteva nell’osservare l’assorbimento luminoso di alcuni gas della tavola periodica.
Ludwig Boltzmann (1844-1906), uno dei padri fondatori della fisica statistica.
Proprio sui gas si sapeva dire un po’ di più, essendo una collezione di atomi che potevano essere trattati (in certe condizioni di densità e temperatura) come un grosso insieme di biglie microscopiche su cui, tramite la fisica statistica di Maxwell, Boltzmann e Gibbs, si potevano fare previsioni termodinamiche verificabili sperimentalmente.
Una particolarità interessante della teoria statistica di Maxwell e Boltzmann era il contenuto minimale di ipotesi sulla natura fisica di queste “biglie microscopiche”. Stiamo parlando di una teoria formulata nella seconda metà del secolo XIX, un periodo in cui non era ancora riconosciuta l’esistenza dell’atomo!
Trattandosi tuttavia di atomi, nemmeno la teoria di Maxwell e Boltzmann uscì indenne dalla rivoluzione della teoria dei quanti, iniziata con Planck nel 1900.
La teoria dei quanti funzionò sia da completamento che da antidoto per la vecchia fisica statistica. Da antidoto perché aiutò ad indagare meglio alcuni problemi matematici della teoria di Maxwell e Boltzmann, i quali conducevano a calcoli errati nella trattazione di particelle tra loro indistinguibili, e davano dei risultati impossibili per alcune quantità come l’entropia dei gas a basse temperature.
Un problema statistico dell’entropia
Queste difficoltà erano dovute al fatto che la fisica statistica si basa essenzialmente sul “contare, per tutte le particelle, tutte le possibili configurazioni microscopiche che conducono alla stessa situazione fisica del gas“, come illustrato in figura:
Lo schema concettuale che sta alla base della teoria statistica dei gas.
Pressione, volume, temperatura, sono tutte quantità macroscopiche misurabili sperimentalmente. In fisica statistica ci immaginiamo di conoscere le posizioni e velocità di tutte le particelle del gas in ciascuna configurazione possibile ammessa dalle condizioni ambientali (cosa non possibile da un punto di vista computazionale, ma che facciamo finta di poter fare comunque).
Siccome non sappiamo in quale configurazione microscopica precisa si trovi il gas in ciascun istante di tempo (non è misurabile sperimentalmente), immaginiamo di avere copie del nostro gas e di fare delle estrazioni per contare quante volte esce una certa configurazione piuttosto che un’altra. La distribuzione di queste estrazioni definisce alcune quantità macroscopiche associate alla specifica configurazione microscopica estratta un numero di volte. Le quantità macroscopiche che misuriamo sperimentalmente possono quindi essere pensate come la media di tutte le pesate con la probabilità di estrazione .
La misura sperimentale di ci dà quindi informazioni sulla distribuzione delle configurazioni microscopiche del nostro gas.
Immaginando il gas in equilibrio termico a una certa energia interna, il numero di configurazioni del gas corrispondenti a tale energia possono essere contate, dal punto di vista teorico, sommando tutte le possibili accoppiate di posizione-velocità nelle tre dimensioni spaziali, e ciò deve essere fatto per tutte le particelle del gas.
Siccome il numero di possibili accoppiate è virtualmente infinito, i padri fondatori della fisica statistica immaginarono di dividere lo spazio dei possibili valori di posizione e velocità in cellette elementari di dimensione finita che chiamiamo . In questo modo due stati dinamici specificati da , e , che caschino nella stessa celletta di questo spazio sono considerati essere lo stesso stato dinamico. È come se ammettessimo, in un certo senso, di non sapere distinguere tra , e , nel caso appartengano alla stessa cella, è un’approssimazione.
La suddivisione in cellette dello spazio di posizioni e velocità per le particelle. Secondo questa suddivisione due set di posizioni e velocità che appartengono alla stessa celletta non sono distinguibili (qui non distinguiamo il rosa dal celeste), mentre sono distinguibili da quella in verde, dato che appartiene a un’altra celletta.
Dal punto di vista statistico, l’entropia del gas è pensabile come una misura di quanti stati dinamici microscopici sono associabili a un certo stato termodinamico macroscopico, una misura della nostra “ignoranza” sull’effettiva configurazione microscopica del gas.
Il problema era che la dimensione della celletta elementare era del tutto arbitraria, e ciò influiva pesantemente sul conteggio delle configurazioni. Essendo il numero delle configurazioni direttamente collegato alla definizione statistica di entropia, una scelta di troppo piccola conduceva a valori infiniti per l’entropia del gas. Questa indeterminazione sulla scelta di impediva inoltre di calcolare, statisticamente, il valore della costante dell’entropia alla temperatura dello zero assoluto.
Il problema della costante dell’entropia stava molto a cuore ai fisici dell’epoca. Nella termodinamica ottocentesca ci si interessava solo alle differenze di entropia, e quindi era di scarso interesse pratico domandarsi quale fosse il valore assoluto dell’entropia a una determinata temperatura come , e in ogni caso questa costante spariva quando si faceva la differenza tra due stati termodinamici e . Tuttavia con l’arrivo del teorema di Nernst e quindi del terzo principio della termodinamica (il quale postula che l’entropia allo zero assoluto sia esattamente zero) si rivelò essenziale determinare il valore di questa costante.
Un altro problema fastidioso era quello che riguardava il conteggio di particelle indistinguibili: quando si contavano tutte le configurazioni possibili di tutte le particelle del gas si finiva per contare più volte la stessa configurazione per via del fatto che non è possibile distinguere una particella dall’altra. Per via di ciò si arrivava a dei paradossi che riguardavano l’entropia di mescolamento dei gas. Di questo problema si interessò Gibbs, il quale propose di dividere i conteggi per il fattore combinatorico dove è il numero di particelle e con “!” si intende il fattoriale . Tuttavia anche questa soluzione non risolveva tutti i problemi…
La teoria dei quanti sistemò i problemi dell’entropia. Si dimostrò che la dimensione delle cellette elementari doveva essere pari alla costante di Planck : la natura discreta della teoria quantistica si sposava bene con l’ipotesi delle cellette elementari della fisica statistica.
Il punto è che gli effetti quantistici delle particelle non sono più trascurabili a basse temperature. In fisica statistica esiste una quantità chiamata lunghezza d’onda termica di De Broglie, la quale ha la seguente espressione per un gas perfetto monoatomico:
La lunghezza termica delle particelle di un gas, dove è la costante di Planck, la massa delle particelle, la costante di Boltzmann che converte da dimensioni di energia a dimensioni di temperatura tramite , e la temperatura del gas.
Questa lunghezza d’onda deriva dalla formulazione ondulatoria di De Broglie per le particelle quantistiche. Secondo De Broglie, a ogni particella avente quantità di moto è associabile una lunghezza d’onda . Se come si prende la quantità di moto termica delle particelle del gas si ottiene la riportata sopra. A temperature normali questa lunghezza d’onda è molto più piccola della distanza media tra gli atomi di un gas. Vediamo però che al diminuire di , la relazione di inversa proporzionalità aiuta a far crescere questa lunghezza d’onda. Per temperature sufficientemente basse la lunghezza d’onda diventa comparabile con le distanze inter-atomiche del gas.
Man mano che si abbassa la temperatura del sistema, aumenta la lunghezza d’onda di De Broglie e dominano le interferenze quantistiche tra le funzioni d’onda delle particelle. Nel caso in figura sono mostrati dei bosoni.
Quindi, per via delle loro proprietà quantistiche, le particelle iniziano ad interferire tra loro come tante onde, e questo succede quando la loro lunghezza d’onda diventa almeno comparabile con la distanza tra una particella e l’altra, a temperature molto basse.
Siccome parliamo di funzioni d’onda che creano interferenze, l’indistinguibilità delle particelle gioca un ruolo centrale in questo processo quantistico, e ciò sta alla base di tutte le difficoltà teoriche della vecchia fisica statistica, la quale non teneva conto di queste proprietà quantistiche. Fino alla prima metà degli anni ’20, questa sottigliezza quantistica non era ancora stata compresa in profondità.
Statistica quantistica: la strada di Fermi
Enrico Fermi (1901-1954). Premio Nobel per la Fisica nel 1938.
Ancora fresco di laurea, Fermi divenne particolarmente ossessionato dal problema della costante dell’entropia, pubblicando diversi articoli tra il 1924 e il 1926.
Aveva intuito che il problema risiedesse nella natura quantistica delle particelle, in particolare dal punto di vista della loro indistinguibilità, ma mancava ancora qualche pezzo del puzzle.
Il pezzo mancante fu messo a disposizione da Pauli con la formulazione del principio di esclusione:non possiamo avere due elettroni con tutti i numeri quantici uguali tra loro. Gli elettroni sono particelle indistinguibili, quindi Fermi si ispirò al loro comportamento per provare a quantizzare un gas di particelle a temperature sufficientemente basse.
Possiamo immaginarci un Fermi che lavora assiduamente all’alba (il suo momento preferito per studiare e lavorare su nuovi articoli) in qualche fredda mattina di Firenze, nell’inverno del 1925-26, sforzandosi di sfruttare il principio di Pauli per ottenere la costante corretta dell’entropia allo zero assoluto.
La prima pagina dell’articolo di Fermi, presentato all’accademia dei Lincei nel febbraio del 1926.
Nel suo articolo “Sulla quantizzazione del gas perfetto monoatomico” uscito nel febbraio del 1926, Fermi ipotizzò che un gas ideale si comportasse proprio come gli elettroni del principio di Pauli e cambiò completamente il modo di contare le configurazioni possibili in fisica statistica: in ciascuno stato dinamico possono esserci zero o al massimo una sola particella, mai due nello stesso stato. Immaginò poi che il gas potesse essere caratterizzato da determinati livelli energetici discreti, proprio come si faceva nella quantizzazione dell’atomo di idrogeno. Questa spaziatura tra i livelli energetici era tanto più rilevante per la fisica del problema quanto più era bassa la temperatura del gas, essenzialmente per il motivo enunciato sopra. Ad alte temperature gli effetti quantistici devono essere trascurabili e si ritorna alla termodinamica dell’ottocento.
La conseguenza di questo nuovo modo di contare era che ciascuno stato era occupato da un numero medio di particelle in funzione dell’energia dello stato, secondo la seguente espressione:
Il numero di nepero (o Eulero), l’energia dello stato, la temperatura , la costante di Boltzmann . Il parametro è noto come “potenziale chimico” e allo zero assoluto corrisponde all’energia di Fermi: .
Usando questa informazione, Fermi calcolò l’espressione della costante dell’entropia, la quale coincideva con il valore sperimentale dedotto da Sackur e Tetrode nel 1912. La sua teoria era un successo!
Tuttavia, come confermato anche da alcuni studiosi (Belloni, Perez et al), Fermi non si interessò delle radici quantistiche di questa nuova statistica, cioè non provò a collegare il principio di Pauli con la natura ondulatoria della materia. Inoltre non esisteva, al tempo, un gas capace di comportarsi come gli elettroni dell’articolo di Fermi. La soluzione di Fermi voleva andare nella direzione della statistica quantistica, ma con un approccio molto cauto sulle ipotesi alla base. Fermi utilizzò la sua intuizione per dare una nuova soluzione a dei problemi annosi di fisica statistica (già risolti recentemente da Bose e Einstein con la loro statistica) e dedusse una statistica completamente nuova.
Tuttavia, al contrario di quanto si dice solitamente in giro, Fermi non applicò direttamente questa nuova statistica al problema degli elettroni nei metalli (cosa che fu fatta da altri e che condusse alla teoria dei semiconduttori).
La statistica di Fermi-Dirac
La distribuzione trovata da Fermi è dipendente dalla temperatura. Abbiamo già anticipato che gli effetti quantistici diventano preponderanti a temperature vicine allo zero assoluto. In questo caso il principio di Pauli emerge direttamente dalla forma analitica della distribuzione, riportata in figura:
La formula di Fermi al variare della temperatura.
Man mano che la temperatura del gas di elettroni si avvicina a , la distribuzione di Fermi si avvicina sempre di più alla “funzione gradino”
La funzione gradino, cioè il limite a basse temperature della formula di Fermi.
Allo zero assoluto, gli elettroni occupano i livelli energetici riempiendoli dal più basso fino a un’energia chiamata “energia di Fermi”, indicata con . Puoi notare come a il numero medio di occupazione dello stato a energia sia esattamente : non può esserci più di un elettrone per stato, è il principio di esclusione di Pauli in tutta la sua gloria. Nota anche che non ci sono elettroni che occupano stati a energia maggiore di quella di Fermi.
Se ti interessa la Fisica, iscriviti alla newsletter mensile! Ho pensato di scrivere una guida-concettuale di orientamento per aiutarti a capire da dove studiare.
Questo comportamento è essenzialmente verificato anche per temperature più alte di , basta solo che sia dove è detta “temperatura di Fermi”, ed è pari a . Nelle situazioni di interesse fisico (come nei metalli), la condizione è praticamente sempre soddisfatta, essendo di solito dell’ordine di alcune centinaia di migliaia di gradi kelvin.
I gas di elettroni sono fortemente influenzati dal principio di Pauli: è un po’ come se ci fosse una forza “repulsiva” tra gli elettroni, la quale gli impedisce di occupare lo stesso stato energetico. Questa è anche un’interpretazione euristica del fatto che la pressione di un gas di Fermi sia più elevata di un gas classico: è difficile comprimere un gas di elettroni perché non vogliono mai “occupare lo stesso punto spaziale”.
Come mai questa statistica è chiamata “Fermi-Dirac” e non solo “Fermi”? È noto che Dirac pubblicò la stessa formula alla fine dell’estate del 1926, mentre Fermi l’aveva presentata nella primavera dello stesso anno. Dirac, su sollecito scritto da parte del fisico italiano, ammise di aver letto il lavoro di Fermi, ma sostenne di averlo completamente scordato.
In difesa di Dirac va detto che il suo lavoro (“On the Theory of Quantum Mechanics“) è molto più generale di quello presentato da Fermi, il quale si era invece proposto di risolvere un problema particolare (quello dell’entropia) che c’entrava poco con i postulati della meccanica quantistica.
Dirac giustificò in maniera elegante il principio di esclusione di Pauli notando che la meccanica quantistica era il luogo naturale per trattare i sistemi di particelle indistinguibili, grazie al formalismo delle funzioni d’onda.
La chiave del ragionamento di Dirac si trova proprio nel fatto che le particelle elementari possono essere considerate indistinguibili. La conseguenza quanto-meccanicistica è che se consideriamo due particelle non interagenti tra loro, e che possono occupare gli stati e , la funzione d’onda che le descrive collettivamente è data dal prodotto delle due funzioni d’onda
in cui e sono le posizioni delle due particelle. Se scambiamo le due particelle, e cioè le portiamo dallo stato allo stato e viceversa, otteniamo la funzione d’onda modificata
Ma se assumiamo che le particelle siano indistinguibili, la densità di probabilità deve restare la stessa (ricordiamo che è data dal modulo al quadrato della funzione d’onda):
Quindi al massimo possiamo avere che è diversa da per un fattore
in cui è un numero tale che in modo da soddisfare (verifica pure!).
Se ri-scambiamo le due particelle, torniamo punto e a capo, e cioè deve essere
ovvero , la quale ha soluzione . Se stiamo parlando di particelle con funzioni d’onda antisimmetriche (cioè lo scambio delle particelle produce un segno meno moltiplicativo nella funzione d’onda totale). Una conseguenza è che se parliamo dello stesso stato allora lo scambio delle particelle produce la seguente relazione
la quale implica identicamente , cioè non esiste uno stato quantistico in cui queste particelle hanno gli stessi numeri quantici. Questa è la giustificazione quanto-meccanicistica del principio di Pauli, e condusse Dirac a ricavare la stessa formula di Fermi per la statistica degli elettroni.
La lettera in cui Fermi richiamò l’attenzione di Dirac sul suo articolo del febbraio precedente.
Fermi si limitò all’applicazione del principio di esclusione su un problema specifico, senza provare a darne un’interpretazione quanto-meccanicistica.
In ogni caso, Dirac riconobbe comunque l’importanza del lavoro di Fermi, e propose di chiamare la nuova statistica “Fermi-Dirac”, mettendo il nome di Fermi al primo posto.
Oggi le particelle (come gli elettroni) che obbediscono alla statistica di Fermi-Dirac sono note come “fermioni”, sempre in onore di Fermi. I fermioni sono tutte quelle particelle caratterizzate da uno spin semi-intero. Per un teorema rigorosamente dimostrabile in teoria quantistica dei campi, tutte le particelle a spin semi-intero obbediscono alla statistica di Fermi-Dirac, mentre quelle a spin intero (note come “bosoni“) obbediscono alla statistica di Bose-Einstein (sono le particelle con dopo uno scambio).
Alle basse temperature i bosoni possono occupare tutti lo stesso stato a energia più bassa, mentre i fermioni sono forzati ad occupare stati a energia crescente fino all’energia di Fermi (nella figura sono presenti al massimo due fermioni per via del numero quantico di spin, il quale assume due valori possibili se lo spin è 1/2).
Alle alte temperature (dove gli effetti quantistici sono meno preponderanti) sia fermioni che bosoni tornano ad obbedire alla statistica di Maxwell-Boltzmann e Gibbs.
PS. ho scritto un libro di testo che rappresenta proprio ciò che avrei desiderato leggere all’inizio dei miei studi di Fisica teorica, per renderla accessibile agli amatori e insegnare le tecniche matematiche necessarie a una sua comprensione universitaria. Si chiama “L’apprendista teorico” , dai un’occhiata per vedere di cosa si tratta. Il libro è acquistabile su Amazon.
Matteo Parriciatu
Dopo aver conseguito la laurea in Fisica nel 2020, studia Fisica Teorica all’Università di Pisa specializzandosi in simmetrie di sapore dei neutrini, teorie oltre il Modello Standard e interessandosi di Relatività Generale. È autore del libro “L’apprendista teorico” (2021).
Uno dei punti fondamentali per la conquista dell’unificazione tra gravità e meccanica quantistica riguarda la comprensione dello spaziotempo a una scala subatomica di lunghezza.
Lo spaziotempo è essenzialmente un concetto classico: possiamo immaginarcelo come una struttura invisibile che può essere descritta utilizzando i numeri reali (cioè quelli della quotidianità: ).
Come immaginiamo la griglia dello spaziotempo curvata dalla massa.
I numeri reali costituiscono un insieme non numerabile, in parole povere non solo abbiamo a disposizione un’infinità di numeri da a , ma anche che tra due numeri come 0 e 1 è compresa un’altra infinità di numeri. Inoltre è anche un insieme continuo, cioè dato un certo numero , è sempre possibile trovare un altro numero sufficientemente “vicino” al primo in modo che la distanza tra i due si avvicini a zero fino alla cifra decimale che si desidera. Nei numeri interi, invece, la distanza tra due numeri può solo coincidere con lo zero nel caso in cui i due numeri siano uguali, altrimenti esiste una distanza minima che è quella che riguarda due numeri consecutivi come e .
Ecco, classicamente si pensa che lo spaziotempo possa essere descritto con un insieme di numeri reali piuttosto che di numeri naturali. Non è definita una distanza minima se non quella uguale a zero.
Cosa succede quando tiriamo in ballo la meccanica quantistica?
Immaginiamo di avere un certo detector per rivelare la distanza tra due punti e nella griglia dello spaziotempo, uno al tempo e l’altro al tempo . Supponiamo per semplicità che il detector, di grandezza e massa , misuri questi due punti spostandosi con una velocità dove è la sua quantità di moto. Avremo cioè
Il discorso che sto per fare ora si basa su un’approssimazione euristica al fine di scongiurare l’introduzione di operatori quantistici, dato che aggiungerebbero poco o niente alla sostanza del discorso principale.
Una volta misurate le posizioni e con una certa incertezza e , possiamo anche stimare l’incertezza sulla quantità di moto usando le formule sulla propagazione delle incertezze:
Considerando ad esempio il punto , varrà il principio di indeterminazione di Heisenberg:
A questo punto sostituiamo dentro il principio di Heisenberg l’espressione di trovata con la propagazione delle incertezze. Trascurando termini quadratici del tipo essendo più piccoli di un ordine di grandezza, si arriva a una relazione interessante:
Le incertezze sulla posizione iniziale e finale sono legate da un principio di indeterminazione, il cui valore aumenta all’aumentare del tempo. Di sicuro questa è una relazione interessante. Ancora più interessante è chiedersi quale sia l’incertezza sulla distanza tra e , cioè . Anche ora, per via della propagazione degli errori, si ha che
Se diminuisce allora aumenta al fine di mantenere vera la , quindi è limitato dal valore più grande tra e .
Nel caso in cui cioè misuriamo i punti e con incertezze circa uguali, il principio di indeterminazione fornisce:
Quindi da un punto di vista quantistico possiamo misurare una lunghezza spaziale con una precisione
Dove ricordiamo, è il tempo che abbiamo lasciato correre tra una misura e l’altra, e è la massa del nostro detector (che abbiamo fatto interagire con lo spazio attorno a sé lasciandolo muovere liberamente). Controllando questi due parametri possiamo rendere piccolo a piacere. Possiamo costruire un detector molto massivo e fare tante misure consecutive separate da intervalli di tempo molto piccoli. Rendendo piccolo il rapporto possiamo rendere piccolo a piacere.
Tutto ciò andrebbe bene in un mondo in cui non esiste la gravità. Questo è il messaggio da portare a casa! Se non ci fosse di mezzo la gravità, come puoi vedere, nulla impedirebbe di rendere piccolo a piacere (anche se non può mai essere nullo, per via del principio di Heisenberg).
L’intervento della gravità
Ho mentito, non possiamo rendere piccolo a piacere! Se è la dimensione del nostro detector, dobbiamo considerare dei tempi tali che cioè maggiori del tempo impiegato dalla luce a percorrere il nostro detector (altrimenti solo una frazione del detector può essere considerato “detector”).
Inoltre non possiamo rendere grande a piacere: se rendiamo troppo grande rispetto alle dimensioni del detector, questi potrebbe collassare in un buco nero, e ciò impedirebbe di leggere qualsiasi informazione sulle misure del nostro esperimento. Il parametro di lunghezza fondamentale di un buco nero è dato dall’orizzonte degli eventi
dove è la costante di gravitazione di Newton e la velocità della luce.
Affinché il detector non sia un buco nero da cui non escono informazioni, desideriamo che sia . Mettendo tutto assieme avremo quindi
La quantità risultante è identificata come lunghezza di Planck , definita come:
La lunghezza di Planck, costante fondamentale della Fisica.Se ti interessa la Fisica, iscriviti alla newsletter mensile! Ho pensato di scrivere una guida-concettuale di orientamento per aiutarti a capire da dove studiare.
Non c’è nessun parametro che possiamo controllare nella formula della lunghezza di Planck: è composta da costanti fondamentali della Fisica come (costante di gravitazione di Newton, costante di Planck e velocità della luce). Quindi è un limite inferiore che non possiamo sormontare in alcun modo ingegnoso: la gravità impedisce di misurare distanze più piccole della lunghezza di Planck.
Quanto è piccola una lunghezza di Planck nelle nostre unità di misura quotidiane? , ovvero volte il raggio tipico di un atomo. Per enfatizzare, il numero corrisponde a cifre dopo lo zero, cioè qualcosa del tipo . Giusto per intenderci.
Il punto fondamentale è che se non ci fosse la gravità, non esisterebbe una lunghezza minima misurabile e potremmo rendere piccola a piacere l’incertezza quantistica della misura!
Ad avere l’ultima parola sulle dimensioni spaziali subatomiche non è quindi la quantistica, ma la gravità! Questo risultato è molto significativo per la Fisica! Perché?
Quando si effettuano esperimenti di Fisica delle interazioni fondamentali (come le collisioni tra particelle) si esplorano scale di energia sempre più alte (che equivale a dire: si esplorano regioni di spazio sempre più piccole). La presenza di una scala di lunghezza sotto la quale non si può andare implica anche l’esistenza di una scala di energia sopra la quale non si può andare (perché la gravità diventerebbe rilevante e si inizierebbe a parlare di collasso in buco nero, avendo accumulato tanta energia in una regione di dimensioni molto ridotte). Un altro pezzo del puzzle per la lunga scalata che ci porterà verso la gravità quantistica?
PS. ho scritto un libro di testo che rappresenta proprio ciò che avrei desiderato leggere all’inizio dei miei studi di Fisica teorica, per renderla accessibile agli amatori e insegnare le tecniche matematiche necessarie a una sua comprensione universitaria. Si chiama “L’apprendista teorico” , dai un’occhiata per vedere di cosa si tratta. Il libro è acquistabile su Amazon.
Matteo Parriciatu
Dopo la laurea in Fisica (2020) e la magistrale in Fisica Teorica (2023) all’Università di Pisa, fa ricerca sulle simmetrie di sapore dei leptoni e teorie oltre il Modello Standard.
È membro della Società Italiana di Fisica.
È autore del libro “L’apprendista teorico” (2021).
Quello che propongo è un esercizio concettuale che ci porterà a stimare in maniera molto euristica (e non rigorosa) la temperatura di evaporazione dei buchi neri, altrimenti nota come “temperatura di Hawking”, dal suo scopritore Stephen Hawking. Su ispirazione da una lettura del fisico Anthony Zee, ritengo ci sia tanta fisica teorica dietro questo semplice giochino concettuale, quindi ci tengo a condividerlo con gli appassionati.
Alle fine, tutto inizia con Planck. Max Planck è uno scienziato rinomato non solo per l’ipotesi sulla quantizzazione della radiazione, ma anche per essere stato il primo a proporre le “unità naturali” nella Fisica. Intendo proprio delle unità di misura molto speciali, dette “naturali” per un motivo ben preciso.
Perché mai avremmo bisogno di utilizzare delle “unità naturali", e poi che significa “naturale"? Naturale rispetto a cosa?
Se ci pensiamo un attimo, la storia dell’umanità è cosparsa di convenzioni sulle unità di misura: cos’è un litro? Un piede? Una spanna? Un centimetro? Un gallone? Un secondo?
Chiaramente ogni unità di misura ha la sua definizione riconosciuta internazionalmente, ma tutte hanno in comune un unico fatto: sono antropocentriche per costruzione (d’altronde non poteva essere altrimenti, no?). Questo porrebbe non pochi problemi dal punto di vista della comunicazione scientifica interstellare!
Per fare un esempio, a un abitante di un pianeta della galassia di Andromeda non può fregare di meno che per misurare quella che chiamiamo “temperatura” ci riferiamo alla graduazione di alcuni tubi contenenti mercurio, riferendoci alla convenzione proposta in un laboratorio nel 700′.
La fisica moderna ci ha insegnato invece che alcune quantità fondamentali, come tempo, lunghezza e massa, devono necessariamente essere espresse in modo che qualsiasi civiltà della nostra galassia (e oltre) possa concordare sul loro valore. Pensa quanto sarebbe difficile descrivere l’unità di misura del “piede del Re” a un abitante di un altro pianeta! Sfortunatamente tutte le unità di misura quotidiane sono affette da questa arbitrarietà.
Ad esempio utilizziamo un’unità temporale che essenzialmente deriva da quanto velocemente il nostro pianeta compie una rivoluzione attorno al proprio asse, e scandiamo il passaggio dei tempi lunghi riferendoci a quante volte il nostro pianeta compie un giro completo intorno alla sua stella. In una galassia popolata da 100 miliardi di pianeti, la misura del tempo riferita al numero di rivoluzioni di UNO solo tra questi appare tutto tranne che efficiente.
Tutto quello che chiediamo è di poter misurare tempi, lunghezze e masse usando qualcosa su cui ogni essere vivente può concordare (supponendo che la Fisica sia la stessa in tutta la galassia).
È possibile misurare tempo, lunghezza e massa senza riferirsi ad unità di misura inventate dall’uomo?
Tempo, lunghezza e massa. Ci bastano queste tre cose per poter fare previsioni fisiche sul mondo che ci circonda, e fortunatamente le costanti fondamentali della Fisica vengono in nostro soccorso.
L’indizio di Newton: lunghezza e massa sono correlate
Se nella teoria di Newton compariamo l’energia cinetica di un corpo gravitante con la sua energia potenziale gravitazionale
Comparando l’energia cinetica di un corpo di massa ”” con l’energia potenziale nel campo gravitazionale di una massa ““.
ed esprimiamo la sua velocità come una frazione di quella della luce, cioè con , vediamo che è possibile, tramite le costanti fondamentali e (velocità della luce e costante di gravitazione universale) esprimere una lunghezza in funzione di una massa
Semplificando e risolvendo per , otteniamo una relazione tra lunghezza e massa che dipende solamente da costanti fondamentali.
Il rapporto è una costante fondamentale della Natura, su cui potenzialmente tutti gli osservatori dell’universo possono concordare (magari nel loro linguaggio o nella loro matematica, ma sarebbe comunque possibile capirsi in qualche modo). Stiamo dicendo implicitamente che basta conoscere la teoria della gravità (costante ) e la velocità della luce (costante ) per poter convertire da lunghezza a massa!
Ok, magari questa relazione non significa nulla se la decontestualizziamo dal problema fisico (eguagliare energia cinetica con energia potenziale serve per risolvere un problema specifico), ma qui stiamo cercando delle relazioni che ci consentano di esprimere delle quantità in funzione di alcune costanti fondamentali.
“Aspetta un attimo, ma anche le costanti fondamentali sono riferite alle unità di misura antropocentriche. La velocità della luce si misura in ad esempio. Non è un discorso circolare?"
Semplicemente diremo che nelle unità fondamentali la velocità della luce ha un valore unitario, e che ogni altra velocità ha un valore che è una frazione di quel valore unitario, cioè con e .
”Ma non ha senso, in questo modo come facciamo a distinguere una velocità da una massa? Come faccio a dire che il numero “1" si riferisce a uno spazio percorso nel tempo invece che a un chilogrammo?
Giusta osservazione, ecco perché dovremmo provare ad esprimere tempi, lunghezze e masse in maniera indipendente tra loro, in funzione di poche costanti fondamentali. Siccome abbiamo tre quantità, ci servono tre costanti fondamentali, ma finora ne abbiamo raccolto solo due.
Nella teoria di Newton abbiamo a disposizione solo la costante , e con Einstein abbiamo guadagnato la costante . Il prossimo passo fu compiuto da Max Planck quando introdusse nella definizione di quanto di energia
Se è ad esempio la frequenza di un fotone, la conversione tra frequenza ed energia è garantita dalla costante di Planck .
Il contributo quantistico
A meno che tu non abbia vissuto dentro una caverna negli ultimi anni, se ti interessa la Fisica avrai sicuramente sentito parlare del principio di Heisenberg, che relaziona una quantità spaziale () con la quantità di moto () (per un approfondimento sul significato matematico del principio, ho scritto un articolo). Il mediatore di questa relazione è la costante di Planck,
Se proviamo a far incontrare gravità e meccanica quantistica risulta naturale considerare la lunghezza gravitazionale travata in precedenza, e cioè la combinazione . Se al posto della quantità di moto poniamo poi con al solito possiamo ricavare, con un po’ di sorpresa, una massa in funzione di sole costanti fondamentali:
Ignorando il fattore arbitrario e calcolando la radice quadrata, incappiamo in una massa espressa solamente in funzione delle tre costanti fondamentali, la cosiddetta “massa di Planck”:
La massa di Planck.
A questa massa contribuiscono le tre costanti delle tre teorie fondamentali della Natura:
, la costante di gravitazione per la teoria della gravità di Newton.
, la costante della velocità della luce, per la teoria della relatività di Einstein.
, la costante dei quanti di energia, per la teoria quantistica di Planck e Heisenberg.
Tre costanti, tre teorie fondamentali, e in regalo abbiamo una massa espressa in maniera universale.
Se come quantità di moto usiamo questa massa, cioè , la lunghezza quantistica associata è, sempre per il principio di Heisenberg
Sostituendo il valore trovato per e trascurando la costante irrilevante, troviamo quella che è definita lunghezza di Planck
La lunghezza di Planck
che è anche pensabile come la distanza percorsa dalla luce in un tempo di Planck definito così
Il tempo di Planck
Grazie alle tre teorie fondamentali: gravità, relatività e quantistica, siamo riusciti a trovare tre costanti fondamentali per esprimere le tre quantità più importanti della Fisica in maniera indipendente
Le tre costanti fondamentali da cui discendono massa, lunghezza e tempo.
Cosa ci abbiamo guadagnato? Ora possiamo esprimere qualsiasi altra massa, lunghezza o tempo in unità di queste che abbiamo trovato! Cioè diremo che
Le costanti sono adimensionali, cioè sono dei numeri puri.
in cui sono ora le letture di “quanta massa, quanta lunghezza o quanto tempo c’è” nelle unità .
Ovviamente in queste unità la massa di Planck ha , il tempo di Planck ha e la lunghezza di Planck ha (per definizione). È come dire “quanti chili ci sono in un chilo?” ovviamente uno, è la definizione.
Un ritorno alle unità primordiali
Volendo potremmo esprimere queste nuove unità utilizzando quelle a cui siamo abituati quotidianamente, come il chilogrammo, il secondo e il metro, giusto per avere un’idea delle scale in gioco.
Siccome la parola “quantistica” ci fa venire in mente quantità molto piccole, non ti sorprenderà sapere che tempo di Planck e lunghezza di Planck sono spaventosamente piccole nelle nostre unità
Ma anche questo non dovrebbe scandalizzarci. Chi ci dice che le nostre unità di misura quotidiane siano significative? Quanto piccolo è troppo piccolo, e quanto grande è troppo grande? Dipende dalle unità che si sta usando. Nelle unità naturali fondamentali , nulla di insolito, non sono piccole. Nelle unità primordiali a cui siamo abituati invece si ha:
, ovvero un numero così piccolo che non vale nemmeno la pena specificare quanto.
, ovvero volte il raggio tipico di un atomo. Per enfatizzare, il numero corrisponde a cifre dopo lo zero, cioè qualcosa del tipo . Giusto per intenderci.
La massa di Planck corrisponde invece a . Dal punto di vista “quotidiano” può sembrare molto piccola, ma in realtà corrisponde a volte la massa del protone, un valore spropositatamente elevato per la fisica delle particelle. Nelle nostre unità, appare così grande perché dipende dalla costante al denominatore, cioè , con che è un numero molto piccolo nella teoria della gravità.
Ma passiamo ora alla questione di interesse: le unità naturali ci permettono di calcolare con estrema velocità una quantità che è il risultato di una primordiale teoria di gravità quantistica: la temperatura di Hawking per l’evaporazione dei buchi neri.
L’evaporazione dei buchi neri
In termini rozzissimi “l’evaporazione” di un buco nero si basa su due aspetti fondamentali:
Il “vuoto“, dal punto di vista quantistico, non è davvero un vuoto, ma una “brodaglia quantistica” caratterizzata da processi di creazione-distruzione di coppie particella-antiparticella. Queste particelle sono “virtuali“, nel senso che non sono osservabili fisicamente e rappresentano solo un conveniente costrutto matematico, una conseguenza delle nostre teorie. Il loro utilizzo conduce tuttavia a predizioni accurate sulle particelle osservabili.
L’orizzonte degli eventi di un buco nero è definito sul vuoto spaziotemporale attorno al buco nero, e racchiude una regione (il buco nero) dalla quale NULLA, nemmeno la luce, può sfuggire.
Che succede se si viene a creare una coppia virtuale di particella-antiparticella esattamente sull’orizzonte degli eventi? Una delle due particelle non potrà più uscire dalla regione spaziotemporale, mentre l’altra proseguirà in direzione opposta per la conservazione della quantità di moto.
Una coppia virtuale di particella-antiparticella si crea sull’orizzonte del buco nero.
Ci tengo a rimarcare: questa descrizione del processo è molto euristica e non del tutto precisa, ma rende bene l’idea. Non ne ho mai trovate di più semplici di questa.
Il punto importante da capire è che in un certo senso è come se il buco nero avesse emesso della radiazione sotto forma di particella! Un attimo prima non c’era nulla, e un attimo dopo è come se si fosse creata radiazione dal niente, anche se in realtà il partner della particella emessa è stato risucchiato nel buco nero.
La particella che procede verso l’universo circostante è stata promossa da “particella virtuale” a “particella reale”, e questa promozione ha un costo energetico ben preciso, garantito dall’energia gravitazionale del buco nero. Tutto questo processo è noto come “radiazione di Hawking”.
La radiazione di Hawking prevede che i buchi neri perdano energia gravitazionale sotto forma di radiazione di particelle.
In questo senso si dice che i buchi neri “evaporano”, cioè è come se iniziassero a perdere massa.
Stima della temperatura di Hawking
Nelle unità naturali definite prima si pone convenzionalmente per semplificare le equazioni. Come conseguenza di ciò, l’energia ha le stesse dimensioni di una massa:
Energia e massa diventano la stessa cosa in unità naturali.
In questo modo il principio di Heisenberg per lunghezza di Planck e quantità di moto con , si scrive con :
Il principio di Heisenberg in unità naturali ci dice che le lunghezze hanno come unità l’inverso di un’energia.Se ti interessa la Fisica, iscriviti alla newsletter mensile! Ho pensato di scrivere una guida-concettuale di orientamento per aiutarti a capire da dove studiare.
quindi impariamo che la lunghezza equivale all’inverso di una massa, cioè all’inverso di un’energia per quanto appena detto.
Da un punto di vista microscopico possiamo associare una certa temperatura alla radiazione di Hawking. Questo perché la temperatura è una misura dell’energia cinetica di un sistema. In un certo senso la temperatura è la manifestazione macroscopica di un processo microscopico, rappresentato dal moto caotico delle particelle. Noi vediamo solo “la temperatura” dal punto di vista sperimentale, quindi per via di questa limitazione abbiamo creato una costante ad hoc per convertire l’energia microscopica in scale graduate di colonnine di mercurio con cui misuravamo le temperature qualche secolo fa.
La conversione tra energia microscopica e la sua manifestazione “misurabile”, cioè la temperatura, avviene grazie alla costante di Boltzmann .
Siccome non vogliamo usare unità antropocentriche come le colonnine di mercurio, porremo per semplicità. Quindi l’energia è proprio la temperatura: .
Parlando del buco nero possiamo allora dire che siccome l’energia equivale all’inverso di una lunghezza, e che al contempo l’energia equivale a una temperatura, si ha che
Come lunghezza caratteristica del buco nero possiamo prendere proprio la lunghezza gravitazionale definita all’inizio di questo articolo, cioè , che in unità supponendo che il buco nero abbia una massa diventa:
Di conseguenza possiamo fornire una stima (molto rozza, ma efficace) della temperatura di Hawking del buco nero di massa
La temperatura di Hawking della radiazione.
Nonostante la nostra stima sia estremamente rozza, il risultato è comunque corretto: la temperatura del buco nero è tanto più alta quanto più è piccolo (cioè meno massivo). Inoltre, come la massa del buco nero diminuisce per via dell’evaporazione, la sua temperatura crescerà sempre di più ed evaporerà ancora più velocemente. Questo è quello che ci dice la formula per la temperatura di Hawking.
Ciò ha del paradossale: hai mai visto un corpo che più perde energia, più si riscalda ed emette in fretta? Questo è solo uno dei tanti problemi che derivano dall’infelice connubio tra relatività generale e meccanica quantistica, e questi problemi dovranno essere risolti da una pretendente teoria di gravità quantistica.
Abbiamo mai rivelato una radiazione di Hawking proveniente da un buco nero? Non ancora, specialmente perché per buchi neri di massa comune (abbastanza elevata) la temperatura di Hawking, andando come , è molto molto piccola, più piccola di quella del punto più freddo dell’universo, vicino allo zero assoluto in gradi Kelvin. La speranza è rivolta verso i buchi neri primordiali in quanto dovrebbero essere in fase di evaporazione finale, un momento in cui la loro massa tende a , e quindi dovremmo essere in grado di rivelare un incremento anomalo nella temperatura dell’emissione.
PS. ho scritto un libro di testo che rappresenta proprio ciò che avrei desiderato leggere all’inizio dei miei studi di Fisica teorica, per renderla accessibile agli amatori e insegnare le tecniche matematiche necessarie a una sua comprensione universitaria. Si chiama “L’apprendista teorico” , dai un’occhiata per vedere di cosa si tratta. Il libro è acquistabile su Amazon.
Matteo Parriciatu
Dopo aver conseguito la laurea in Fisica nel 2020, studia Fisica Teorica all’Università di Pisa specializzandosi in simmetrie di sapore dei neutrini, teorie oltre il Modello Standard e interessandosi di Relatività Generale. È autore del libro “L’apprendista teorico” (2021).