Nel mondo di oggi, un “Einstein” verrebbe pubblicato?

Propongo una personalissima riflessione che, in quanto tale, va presa con le pinze ed è aperta alla discussione. La riflessione riguarda il sistema odierno dell’editoria scientifica.

L’articolo originale del 1905.

Nel 1905 (118 anni fa) veniva pubblicato “Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento“, articolo con cui Einstein ha iniziato una vera e propria rivoluzione non solo nella fisica, ma anche nella cultura generale.

La rivista da cui venne pubblicato era una delle più prestigiose nel panorama tedesco ed europeo: la “Annalen der Physik“, e tra gli editori c’era nientemeno che il celebre Max Planck.

Fu proprio Planck uno dei primi garanti della qualità del lavoro di Einstein sulla relatività. Nello stesso anno Planck aveva accettato di pubblicare un altro lavoro di Einstein, quello sull’effetto fotoelettrico, nonostante per lui l’idea dei “quanti di luce” fosse un po’ indigesta [1]. Invece l’articolo sulla relatività fu presentato nel giugno 1905 e pubblicato il settembre successivo, e già in novembre Planck espresse pubblicamente il suo apprezzamento [2].

Oggi questa scala temporale di eventi sarebbe altamente improbabile, dobbiamo infatti ricordare che Einstein all’epoca lavorava in un ufficio brevetti e faceva il fisico solo “part-time”, ovvero non aveva nessun prestigio accademico che gli garantisse pubblicazione immediata. Solo la grande qualità del suo lavoro e la lungimiranza degli editori potevano fare la differenza.

Perché questo discorso sia così importante lo si capisce bene dal fatto che uno degli aspetti fondamentali del metodo scientifico è proprio la riproducibilità dei risultati, la quale passa per un’attenta revisione del lavoro di un ricercatore da parte di un altro collega dello stesso campo. Questa revisione è nota come “revisione tra pari”, in inglese “peer review“.

Possiamo “fidarci” della Scienza e dei suoi costrutti proprio grazie a questo processo di revisione: non importa chi tu sia, se hai detto una evidente castroneria io devo rigettare il tuo risultato. Spesso questo sistema funziona molto bene, e viene garantita una buona scrematura dei lavori in modo tale che rimangano solo le idee migliori.

A volte funziona un po’ meno bene: la revisione può risultare un po’ troppo soggettiva, può dipendere dalla luna storta di chi la fa, o semplicemente può capitare che la rivista tratti temi con una filosofia diversa da quelli perseguiti nell’articolo.

Per fare un esempio, l’articolo-capolavoro di Enrico Fermi “Tentativo di una teoria sull’emissione dei raggi beta” fu rifiutato da Nature nel 1934 perché secondo i gusti dell’editore conteneva troppe speculazioni.

All’epoca però non era inusuale che tanti articoli passassero con una revisione minima, se non assente. Che poi sopravvivessero o meno il test del tempo lo avrebbero detto gli altri colleghi negli anni, nei dibattiti alle conferenze ad esempio. In ogni modo, la revisione tra pari era comunque presente ed importantissima. Avveniva però spesso grazie all’influenza di una illustre personalità (l’editore) che si incaricava di decidere se fosse interessante pubblicare o meno. Una “de facto” peer review, senza troppa scrupolosità.

La rivista in un certo senso rappresentava anche quello che potrebbe essere definito “archivio delle proposte”, ruolo che oggi è ricoperto da siti come Arxiv, PubMed etc., i quali sono dei database in cui vengono caricate le versioni “bozze” (chiamati preprint) degli articoli da proporre alle riviste. Oggi, per via dell’enorme volume di articoli proposti dalle accademie [3] il processo di peer review diventa più che mai fondamentale per garantire la corretta scrematura.

Funziona così: l’editore della rivista incarica uno (o più) revisori di studiare l’articolo, affidando a loro la decisione (in sua vece) se pubblicare o meno il lavoro.

Se il livello è, come nei campi della Fisica, altissimo di per sé, la scrematura diventa ancora più spietata. La rivista non può pubblicare tutti i lavori (indipendentemente dalla qualità dei lavori), dovrà quindi inevitabilmente rigettare anche qualche ottimo articolo. Il motivo? Possono essercene diversi, alcuni ragionevoli, altri un po’ meno:

  • l’articolo non è conforme agli interessi della rivista;
  • l’articolo ha un contenuto simile a uno già pubblicato, con piccole variazioni non degne di pubblicazione;
  • l’articolo non è conforme alle credenze di chi fa la revisione (l’ho sentito dire!);
  • l’articolo va in una direzione sconosciuta a cui nessuno è interessato (i fondi vanno in altre direzioni);
  • l’articolo è troppo speculativo, troppo filosofico, o in generale contiene troppe supposizioni personali.

La lista potrebbe andare avanti, figure inserite male, tabelle non chiare, chi più ne ha ne metta: quanti più motivi possibili pur di non pubblicare il 100% degli articoli che arrivano in revisione. Non importa chi tu sia, il tuo articolo può comunque essere rigettato a volte per motivi che sfuggono il tuo controllo.

Questa circostanza è una naturale conseguenza dell’incredibile volume di articoli prodotti ogni mese, non è una cosa né giusta né sbagliata, va accettata in virtù del metodo scientifico. Di sicuro la scrematura riesce spesso ad eliminare gli articoli davvero terribili.

Tuttavia viene da riflettere: la scrematura sopracitata rischierebbe forse di eliminare anche gli articoli più rivoluzionari?

Questa opinione è condivisa da Lorraine Daston in una sua intervista [4].

Analizziamo l’articolo di Einstein “Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento“:

Quello evidenziato in giallo è un eccezionale esempio di chiarezza espositiva ed attenzione pedagogica nei confronti del lettore. Secondo la Daston un revisore per una rivista prestigiosa di oggi smetterebbe di leggere già da qui. Lo stile di Einstein era notoriamente un po’ verboso, speculativo, filosofico. A posteriori è la ciliegina sulla torta di un capolavoro scientifico, ma oggi potrebbe essere potenzialmente oggetto di “taglia quella parte o non te lo pubblicheranno mai”.

Inoltre salta subito all’occhio un altro fatto: l’articolo di Einstein non ha bibliografia. Albert non cita nessuno. Un peccato veniale che oggi potrebbe portare all’esclusione dell’articolo (o, più ragionevolmente, a un marcato sollecito di aggiungerla).

In nessun modo questa riflessione vuole intaccare la illuminante produzione scientifica di Einstein, ma credo che possa stimolare una discussione sui potenziali lati negativi della professionalizzazione della scienza. L’edificazione di questi sistemi editoriali è una risposta all’ingente numero di preprint (a sua volta dovuto alla ignobile politica del “publish or perish“), dunque la domanda è: dobbiamo in qualche modo ripensare tutta questa infrastruttura?

Bibliografia

[1] Seelig Carl, Albert Einstein: A documentary biography, Translated to English by Mervyn Savil
[2] Hoffmann Banesh and Dukas, Helen, Albert Einstein Creator & Rebel, 1973, New York: A Plume Book, pp. 83-84.
[3] Bornmann, L., Haunschild, R. & Mutz, R. Growth rates of modern science. Humanit Soc Sci Commun 8, 224 (2021). 
[4] Loncar Samuel, Does Science Need History? A conversation with Lorraine Daston, Meanings of Science Project MRB Interviews 2022.


PS. ho scritto un libro di testo che rappresenta proprio ciò che avrei desiderato leggere all’inizio dei miei studi di Fisica teorica, per renderla accessibile agli amatori e insegnare le tecniche matematiche necessarie a una sua comprensione universitaria. Si chiama “L’apprendista teorico” , dai un’occhiata per vedere di cosa si tratta. Il libro è acquistabile su Amazon.

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Matteo Parriciatu

Dopo la laurea in Fisica (2020) e la magistrale in Fisica Teorica (2023) all’Università di Pisa, fa ricerca sulle simmetrie di sapore dei leptoni e teorie oltre il Modello Standard.

È membro della Società Italiana di Fisica.

È autore del libro “L’apprendista teorico” (2021).

La Dolce Vita tra i Calcoli Sbagliati – Cronache di Fisica Teorica

Cambio posizione per l’ennesima volta. La scalinata davanti al Palazzo Ducale di Genova non è uno dei posti più comodi per mettersi a scrivere calcoli sul tablet. La speranza è che la scomodità della situazione stimoli il cervello a produrre più di quanto farebbe a casa.

È il mio primo tentativo nel mondo della ricerca in Fisica Teorica, e davvero sento di non poter sbagliare. In qualche modo sono convinto che un ricercatore alle prime armi abbia a disposizione un solo tentativo, altrimenti è tacciato di incompetenza. Qualcosa tipo “se non ottieni risultati, almeno salvati la reputazione e non commettere errori”.

Tra le questioni da indagare nel mio lavoro ce n’è una che mi sta molto a cuore: una spiegazione teorica del perché elettrone, muone e tau (tre particelle “sorelle” da tutti i punti di vista) abbiano masse così spropositatamente diverse:

Elettrone, muone e tau, assieme al bosone di Higgs.
  • Rapporto massa elettrone/muone m_e/m_\mu\approx 1/200
  • Rapporto massa muone/tau m_\mu/m_\tau\approx 1/17

Questi rapporti non sono in nessun modo giustificati nel Modello Standard. È un puzzle vero e proprio nella fisica delle alte energie: perché particelle così simili in tutto e per tutto devono differire in maniera così marcata nelle loro masse?

Non che stessi provando a fare nulla di nuovo, negli ultimi 40 anni sono state pubblicate molte teorie (non verificate) in grado di spiegarlo, il punto è che il lavoro di ricerca prevedeva la risoluzione di questo puzzle in un contesto più ampio, una nuova simmetria della Natura proposta di recente: la simmetria modulare. Tale simmetria aiuterebbe a fare previsioni sulle particelle più elusive che conosciamo: i neutrini.

La simmetria modulare funziona molto bene, ma non è facile incastrarci in maniera naturale quei rapporti di massa. Questo era parte della scommessa del nostro lavoro di ricerca. Nulla di sconvolgente, ma un possibile (interessante) avanzamento in un’area molto misteriosa.

Il Sole picchia forte su quella scalinata, e man mano che si sposta nel cielo traccia un’ombra che io sono costretto a seguire per vedere meglio i miei calcoli. Nella mente riecheggiano le parole del mio supervisore, sentito poco prima in una informalissima chiamata Teams al telefono:

Quei pesi modulari possono avere un ruolo nella spiegazione dei rapporti di massa, qualcosa che non è stato ancora provato…

I “pesi modulari” sono speciali coefficienti con cui scriviamo le teorie di simmetria modulare, e sono collegati in qualche modo agli accoppiamenti delle particelle con il campo di Higgs (il quale dà massa alle particelle, come sai). Detto in maniera spiccia: un peso diverso corrisponde a un accoppiamento più o meno forte con il campo di Higgs, per via di interazioni che avvengono a energie altissime con altri campi ad oggi sconosciuti.

Il mio obbiettivo è quello di spiegare con lo stesso modello sia i rapporti di massa di queste tre particelle, sia alcuni parametri fondamentali nelle oscillazioni dei neutrini. La maggior parte dei modelli “modulari” in letteratura riesce a fare solo la seconda cosa.

Provo quindi tutte le combinazioni possibili di pesi da assegnare. Dai! Elettrone, muone e tau, da qualche parte dovrete pur distinguervi l’uno dall’altro. Nessuna strada mi convince, forse perché cerco di essere più ortodosso possibile: non sia mai che proponga una mia idea originale col rischio di metterci la faccia e fallire quella che io penso sia la mia unica chance.

Tra un calcolo e l’altro, le ore scorrono a una velocità impressionante: un soleggiato (ma freddo) pomeriggio autunnale inizia a volgere al termine.

Sono sempre stato uno studente più “visivo” che “logico” quando si tratta di conti, cerco anzitutto analogie e somiglianze tra i simboli. Spesso funziona, e se funzionasse pure stavolta?

Mi intestardisco su un’idea: e se dessi dei pesi diversi a queste tre particelle? Provo varie possibilità, decisamente alla cieca.

Verso il tramonto, inizio a notare un pattern nei miei calcoli. Un’assegnazione di pesi modulari pare riprodurre la gerarchia di masse correttamente. La mia testardaggine con quei calcoli pare premiarmi. Ho tentato un approccio un po’ meno ortodosso, ma sì sai forse che quasi quasi è anche…originale?

Il cuore salta un battito. Che bella la verginità del ricercatore alle prime armi: basta così poco.

Rialzandomi da quella scalinata, mi accorgo di aver perso sensibilità alle gambe dopo averle pressate per almeno 4 ore sul marmo fresco. Mentre sto perdendo l’equilibrio penso: l’mportante è non far cadere il tablet, no quello è troppo importante. Ovviamente per quello che ci sta scritto dentro.

Sono così paranoico che decido subito di mandare al mio supervisore una mail con le paginate che ho scritto. Paginate illeggibili, dunque inutili per chiunque non fosse me, ma dovevo in qualche modo salvarle. Potevo sempre essere rapito o finire in un tombino nella via di casa…e quelle pagine non avrebbero mai visto la luce del giorno.

Il tempo di allontanarmi dal Palazzo ed arriva una telefonata su Teams, è lui.

Nel momento in cui finisco la chiamata mi ritrovo quasi dall’altra parte della città. Nell’euforia ho percorso tutto viale XX settembre. Sono convinto di essermi giocato la mia unica carta da fisico teorico, e che forse è quella vincente.

Ricordo bene quella sensazione mistica: mi sentivo davvero in comunicazione con le leggi della Natura, la stessa sensazione che mi ha sempre attratto alla Fisica. Le parole entusiaste del mio supervisore mi hanno folgorato.

Quella chiamata su Teams ha però esaurito le ultime energie vitali del mio telefono. Un’ottima occasione per riflettere su quanto fatto, in solitudine, per riprendersi dallo shock.

Camminando, l’euforia lascia il posto a una strana sensazione di sollievo: penso “fiùu, per fortuna me la sono giocata bene questa carta, ora posso essere preso sul serio“. Subentra anche una certa ansia da prestazione: ora che ho mosso bene il primo passo, ci si aspetta che azzecchi pure il prossimo? E così via, senza fine? Quasi toglie un po’ di sapore a quella che penso essere la vita del ricercatore.

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Quella notte non riesco a prendere sonno, vorrei sia subito mattina per ritornare a lavorare, e magari scrivere in bella copia quei risultati preliminari.

Ma, come a volte mi capita (specialmente dopo aver dato un esame scritto) la notte è portatrice di lucidità divina. Inizio ad avere dei sospetti su quello che ho fatto, così mi alzo e mi presento in salotto, illuminato al chiaro di Luna, tablet in una mano e computer nell’altra. Mi rileggo un po’ di articoli su questa nuova teoria, in cerca di eventuali punti deboli nel mio ragionamento.

L’orgoglio scaturito dalla giornata mi impedisce di avere grossi dubbi, ma ho anche fiducia nella mia attività cerebrale in regime di dormiveglia: se ho accumulato qualche sospetto ho il dovere di controllare.

La città inizia a risvegliarsi, e assieme a lei il cinguettio degli uccellini del parco vicino. Fa un suono ben più forte il tonfo del mio cuore mentre realizzo che ho trascurato alcuni vincoli fondamentali nelle equazioni del modello.

Il modello che ho trovato non è corretto perché alcuni vincoli di simmetria non sono rispettati.

Tutto distrutto, tutto in malora, per via di un dettaglio.

Con mia enorme sorpresa, il tonfo non è però doloroso, somiglia più a quella sensazione che hai dopo essere sceso dalle montagne russe. Lo spavento è intenso, ma la voglia di rifarlo lo è ancora più.

In pochissimi secondi ho il vero lampo della giornata: non sono deluso, sono estasiato. Tutto ha molto più sapore, e arriva il vero sollievo.

La dolce illusione di aver trovato qualcosa di nuovo è molto più gustosa del risultato in sé. In quelle chiamate su Teams non ero entusiasta solo per l’elettrone, il muone e il tau, ma anche per la possibilità di conversare con un altro ricercatore su questioni difficili di cui nessuno sa la risposta certa.

Quella notte, in quell’istante, realizzo di essere orgoglioso di me.

Il tentare e ritentare, senza l’obbligo di dover trovare tutto al primo colpo, questa è la Ricerca. Il ricercatore può (e deve) sbagliare tanto, perché ha poi il dovere di informare gli altri su quali strade non funzionano.

Chiaramente il mio era un approccio infantile. Ma quanto spesso pensiamo di doverci giocare la carriera in un colpo solo? Quante volte rigettiamo il fallimento! Quante volte sentiamo di dover dimostrare qualcosa per darci un po’ di tregua e accettarci?
Eppure, quante altre volte la ricerca del successo è ben più saporita del successo stesso?

In quell’attimo, ho capito davvero perché mi interessa la strada della ricerca.


Matteo Parriciatu

Dopo la laurea in Fisica (2020) e la specializzazione in Fisica Teorica (2023) all’Università di Pisa, studia simmetrie di sapore dei leptoni e teorie oltre il Modello Standard, interessandosi anche di Relatività Generale.

È autore del libro “L’apprendista teorico” (2021).

PS. ho scritto un libro di testo che rappresenta proprio ciò che avrei desiderato leggere all’inizio dei miei studi di Fisica teorica, per renderla accessibile agli amatori e insegnare le tecniche matematiche necessarie a una sua comprensione universitaria. Si chiama “L’apprendista teorico” , dai un’occhiata per vedere di cosa si tratta. Il libro è acquistabile su Amazon.

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Cosa impariamo da Einstein sul Problem Solving: come si affrontano gli argomenti più difficili?

Non che io sia così intelligente, semplicemente studio i problemi più a lungo

Albert Einstein

Questa citazione è una tra le più famose di Einstein e secondo me evidenzia un punto cruciale del suo modo di lavorare, che lo ha portato a rivoluzionare importanti concetti che altri fisici suoi contemporanei mettevano sotto al tappeto.

Come molti problemi che dobbiamo affrontare nel nostro percorso di studi, quelli che Einstein decise di studiare erano scomodi, fuori dalla zona comfort, non sempre ben posti.

Albert Einstein (1879-1955).

Hai presente quella spiacevole sensazione di inadeguatezza quando ci viene chiesto di risolvere un problema che apparentemente è al di sopra delle nostre capacità? Quella sensazione di avere un muro mentale che ci impedisce anche solo di iniziare a impostare il problema? Ma soprattutto, quel senso di fallimento nel soddisfare le aspettative che abbiamo di noi stessi, e di sentirsi fuori posto: “se non so risolvere questo problema, cosa ci sto a fare qui?”.

Tutte queste emozioni negative sono il pane quotidiano dei ricercatori. Infatti, per definizione, il ricercatore è colui che prova a risolvere problemi mai risolti da nessuno, e nel fare ciò finisce per sbattere continuamente contro quel muro mentale, per cercare di avanzare anche solo di uno 0.1%.

Noto che viene poco enfatizzato il fatto che i ricercatori sono comunque prima di tutto studenti. Questo è un fatto molto importante, perché non stai facendo ricerca se non ti metti a studiare cose che vanno al di là delle tue capacità. Per questo motivo il modus operandi del ricercatore dovrebbe essere preso come modello per gli studenti più giovani.

Gli anni febbrili di Einstein

Dal 1907 al 1915 Einstein lavorò incessantemente alla teoria della Relatività Generale, andando a sbattere la testa contro difficoltà teoriche e matematiche che all’epoca rappresentavano l’apice della Fisica Teorica.

In questo processo Einstein dovette imparare quasi da zero il linguaggio matematico più adatto per formulare le sue idee (la geometria di Riemann e il formalismo di Minkowski per lo spaziotempo), e l’impresa si dimostrò così eccezionale che dovette collaborare continuamente con due amici matematici, Marcel Grossmann e Michele Besso.

Le difficoltà però non erano solo matematiche. Einstein cambiò più di qualche volta le principali strutture concettuali con cui desiderava conciliare la gravità di Newton con la sua relatività ristretta, e fino all’ultimo momento non fu mai esattamente convinto di quali fossero i reali fondamenti teorici.

Per chi mastica un po’ di inglese consiglio il magistrale lavoro dello storico Michel Janssen “No success like failure: Einstein’s quest for General Relativity, 1907-1920“, il quale ha saputo rintracciare tutto il percorso concettuale di quegli anni.

Nelle pagine di Janssen non c’è la moderna figura mitologica dell’Einstein “tutto d’un pezzo”, al quale bastò immaginarsi “una persona in caduta libera” per formulare la nuova teoria della gravitazione. Invece viene fuori l’Einstein ricercatore, pieno di dubbi e ripensamenti, ma che faceva di queste tre qualità principali le sue armi di battaglia:

  • Lungimiranza. Einstein era di sicuro un visionario perché era capace di sintetizzare tutte le difficoltà teoriche in pochissimi punti cardine: se doveva esistere una teoria della gravità compatibile con la relatività, allora doveva rispettare un principio di covarianza delle leggi della fisica sotto qualsiasi trasformazione di coordinate. La visione di Einstein era ben delineata: credeva ciecamente nel principio di Galileo e sapeva che in un modo o nell’altro la teoria corretta doveva racchiuderlo in una nuova veste.
  • Umiltà intellettuale. La storia è cosparsa di ricercatori che hanno dedicato gran parte della loro carriera a teorie che si dimostravano fallaci e inconcludenti. Il loro principale nemico era il proprio ego, che non gli permetteva di ammettere di essere stati nel torto tutto il tempo.
    Al contrario, Einstein era capace anche di pubblicare un articolo al mese in cui nel successivo smontava la maggior parte delle cose dette nel precedente. Continuò a ripetere questo processo di “avanzamento-smentita” per almeno 3 anni, dal 1913 al 1915.
  • Perseveranza. Einstein era un lavoratore incallito, disposto a dedicare tutto il tempo che riteneva necessario per la risoluzione di un problema. Laddove i suoi colleghi mollavano, lui continuava. Aveva capito che la mente è in grado di fare avanzamenti importanti solo quando le si dà tempo sufficiente.
La famosa foto della scrivania di Einstein nel suo ufficio a Princeton.

Gli ultimi anni di gestazione della Relatività Generale furono intensissimi, specialmente l’ultimo anno in cui Einstein si ritrovò a rivaleggiare con nientemeno che David Hilbert (il più grande matematico del suo tempo), il quale aveva fiutato la possibilità di trovare le equazioni corrette prima di Einstein. Proprio a questo punto (inverno del 1915) il lavoro di Einstein divenne febbrile: si lasciò assorbire completamente dal proprio obbiettivo, dimenticandosi persino di scrivere agli amici. Oggi il suo stato mentale sarebbe probabilmente classificato in psicologia come “flusso”.

Spesso sono così assorbito dal lavoro che mi dimentico di pranzare.

Albert Einstein in una lettera a suo figlio Hans, 1915.

Lo stato mentale di “flusso” è comune a tantissimi artisti, ed è spesso descritto come uno degli stati di coscienza più sereni dell’esistenza, in quanto il cervello ha piena libertà espressiva e lavora all’unisono con emozioni e corpo.

In ogni caso, ciò che condusse Einstein a risolvere il problema più difficile della sua carriera fu un mix di qualità da cui tutti possiamo trarre ispirazione per migliorare il nostro problem solving in generale.

In fondo, i principali nemici di Einstein erano quelli che accomunano tutti i noi: dubbio, insicurezza, ripensamento, il non sentirsi all’altezza. Queste sanguisughe emotive tolgono energia preziosa che invece occorrerebbe investire nel cercare di risolvere il problema in sé.

Come vanno approcciati gli argomenti più rognosi

La mente è capace di produrre i più grandi successi, ma anche di condizionare i più grandi fallimenti. Dipende tutto da come la si usa, e forse la nostra società dedica troppo poco tempo all’educazione sul suo corretto utilizzo.
Come sosteneva David J. Schwartz, professore alla Georgia State University, davanti a un problema molto rognoso le persone solitamente scelgono di investire le energie mentali in uno tra due modi:

  • Distruttivo. La maggior parte delle energie mentali vengono spese per ricercare tutte le buone ragioni per cui non siamo in grado di risolvere il problema che ci è stato posto di fronte.
  • Creativo. La maggior parte delle energie mentali vengono spese cercando di capire come possiamo fare anche solamente un piccolo avanzamento verso la soluzione.

Questo è ciò che ho imparato anche nella mia esperienza universitaria. È capitato spesso agli esami che tra due persone ugualmente preparate solo la più intraprendente delle due riuscisse a strappare un voto più alto, tentando di rispondere alla “domanda bonus” dell’esame. Questo perché, a differenza del collega, riusciva a investire le proprie energie mentali concentrandosi solo sul problema, senza ascoltare le sanguisughe emotive. Mentre uno dei due cercava la soluzione, l’altro cercava delle scuse per autoconvincersi di non essere in grado.

Una pagina degli appunti di Einstein sulla sua teoria della gravitazione.

Io stesso mi sono accorto di aver fatto questo errore specialmente il primo anno di università.
Nel momento in cui mi sono accorto di questo cattivo approccio mentale ho cercato di non ripeterlo più, e i risultati sono arrivati subito.

In generale nel momento in cui dobbiamo studiare qualsiasi argomento particolarmente rognoso, mal posto o semplicemente noioso, l’approccio corretto è quello creativo: bisogna cercare di trovare la volontà di concentrarsi solo sull’argomento, aprendo una bolla intellettuale in cui eliminiamo tutte le interferenze della nostra vita. Occorre mettere via smartphone e social media ed entrare dentro la materia.

Ho notato che il modo più rapido che ho di farmi piacere qualcosa è leggere ciò che ha entusiasmato altre persone di quell’argomento. Spesso non ci piace qualcosa solo perché ne sappiamo troppo poco, o perché chi ce l’ha presentata non è riuscito a trasmetterci il motivo per cui dovremmo studiarla. Internet è un posto fantastico proprio per questo motivo: con pochi click puoi avere accesse alla vita e alle opinioni di migliaia di persone che hanno studiato la nostra stessa cosa.

Sii come Einstein, immergiti dentro al tuo lavoro. Solo dopo esserti immerso saprai se quell’argomento ti piace o meno. Se stai risolvendo un problema: cerca soluzioni, non scuse. Se proprio non trovi nessun indizio per riuscire a risolverlo: informati su come le persone hanno risolto problemi simili, e magari torna sul libro per approfondire il capitolo riguardante quel problema. L’approccio attivo batte sempre l’approccio passivo.

Un’altra cosa che ha funzionato nel mio caso quando mi sono confrontato con argomenti piuttosto noiosi o problemi apparentemente insormontabili è quella di “renderli memorabili”. Mi convincevo che quello che stavo facendo era davvero importante, e davo un tono solenne alla mia impostazione del problema, fingendomi un ricercatore. Spesso sono arrivato anche a scrivere degli articoli in PDF in cui proponevo la mia soluzione: l’atto di scrivere quei PDF mi motivava a concentrarmi solennemente sul problema. Questo piccolo accorgimento riusciva a fregare il cervello, spazzare via quell’apatia che crea il mindset distruttivo per lasciare spazio alla creatività.
Anche quando stai risolvendo esercizi apparentemente banali o che i tuoi colleghi ritengono semplici (triviali), continua comunque a darti quell’aria solenne per motivarti ad andare avanti. Prima o poi gli altri si lasceranno ingoiare dall’apatia e presto smetteranno di confrontarsi con i problemi più complessi.

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Infine, un’ultima nota sul concetto di “esaurimento”, o come va di moda dire oggi “burnout“.

Risolvere problemi o studiare materie molto complesse porta via tanta energia. Nonostante ci siano comunque tanti modi di ottimizzare l’energia giornaliera, ad esempio eliminando le distrazioni, pianificando le cose da fare, ed eliminando la mentalità distruttiva (cioè non sprecare energia mentale per trovare scuse o motivi per cui fallirai in ciò che stai per fare), in ogni caso è facile arrivare a un punto in cui si è semplicemente esaurita tutta l’energia.

Cosa possiamo fare quando ci sentiamo completamente esausti riguardo lo studio, nonostante ci siamo riposati e ricaricati in altri modi? Mi è rimasto impresso il suggerimento del monaco benedettino David Steindl-Rast, secondo il quale:
il rimedio all’esaurimento non è smettere di fare ciò che stiamo facendo, ma iniziare a farlo mettendoci tutto ciò che abbiamo, anima e corpo, il 100% della nostra dedizione e concentrazione.

Secondo Steindl-Rast, l’energia che cercavamo era già dentro di noi, soppressa dal fatto che non stavamo lavorando al 100% della nostra concentrazione, ma magari al 60-70%. Quante volte ci siamo dedicati a un argomento, o a un problema, avendo però la testa rivolta verso altri argomenti o altri problemi? O magari avendo la testa occupata dalle sanguisughe emotive? Questo multitasking mentale comporta un consumo energetico molto più elevato del “dedicarsi al 100%”.

Sii come Einstein, dedicati a un argomento o un problema alla volta, organizzandoti il tempo. Pensa in grande e solennemente, non togliere importanza al lavoro che fai. Solo questo è in grado di scacciare l’apatia e le sanguisughe emotive che ti trattengono dall’imparare cose nuove o dal risolvere i problemi più complessi.


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La Matematica di come diventiamo bravi in qualcosa

Spesso mi viene chiesto se la Fisica possa essere imparata da tutti, e quasi sempre ho la stessa difficoltà nel formulare una risposta.

Ovviamente mi viene da dire “Certo che sì, non c’è nulla di speciale, basta applicarsi con costanza“, ma dentro di me so che la parola cruciale è “costanza“: come per tutte le discipline la differenza sta nel reale interesse. Tutti possiamo imparare tutto, il punto è che tutti (com’è naturale) prima o poi scegliamo solo una tra le tante possibilità. La vita è una sola e quindi sarebbe poco pratico investire energie in più interessi.

La formulazione più corretta della mia risposta sarebbe quindi “Basta avere l’interesse, dopodiché bisogna riporre fiducia nella costanza della pratica”. Qui molti storcono il naso: “Devi esserci nato con la passione per la Fisica, non è per tutti, è roba poco accessibile”.

Quello della passione è in realtà un falso mito, e il discorso può essere applicato non solo alla Fisica, ma a tutte le discipline e tutti gli hobby che cerchiamo di imparare: sono infatti convinto che per diventare bravi in qualcosa bastino due ingredienti:

  • L’interesse.
  • La fiducia nella costanza.

L’autosabotaggio del cervello

Capita a tutti di avere, in qualcosa di specifico, abbastanza interesse da volerne sapere di più e imparare. Non sempre riusciamo a trovare la motivazione per dedicarci a questo interesse, semplicemente perché il cervello si lascia spaventare dalla mole necessaria di lavoro.
In sostanza ho imparato che in questi casi il cervello individua due macro-stati di esistenza:

  • 1) Ciò che so ora
  • 2) Ciò che saprò quando avrò “finito” di imparare

questa suddivisione innaturale elimina tutto quello che sta in mezzo, e cioè il processo stesso dell’imparare.
Il cervello si spaventa perché “imparare a fare quella cosa” diventa all’improvviso una montagna da scalare e non un semplice sentiero da percorrere in leggera pendenza. Diversamente, l’arte dell’apprendimento segue la stessa filosofia degli scalatori: guarda il sentiero, non la cima della montagna!

Inoltre la suddivisione elimina un prerequisito fondamentale dell’animo dello studente: non c’è mai fine all’apprendimento, e “imparare a fare qualcosa” non è un obbiettivo, ma un percorso, uno stato dell’esistenza.

Ho letto in giro che il primo passo per imparare qualcosa è togliere pressione da se stessi.
Bisogna cioè trasformare il nostro modo di formulare gli obbiettivi: passare da questa affermazione: “imparerò a suonare la chitarra” a quest’altra: “dedicherò qualche ora alla chitarra, perché mi piace”.
Questa trasformazione fa la differenza perché toglie tanta pressione al cervello.
Rimane però la questione annosa a cui siamo ben familiari: ma quanta fatica devo fare prima di vedere progressi in ciò che imparo?

Perché non faccio progressi?

Chiaro che non si possa ignorare il fatto che ci piace praticare solo ciò che ci dà un minimo di soddisfazione. Come si fa a “guardare solo il percorso” se non si vedono progressi immediati? È chiaro che si arrivi a credere di non essere portati se si osserva solo una minima percentuale di miglioramento.
Siamo campioni del mollare appena le cose non procedono come ci aspettiamo.

Il punto è che bisogna “imparare anche come impariamo”.

Ho preso ispirazione da un articolo di James Clear, in cui si evidenziava come le nostre aspettative sull’apprendimento siano completamente irrealistiche. Provo a riformulare il ragionamento nello stile che preferisco io. Iniziamo con un’affermazione su cui penso si possa concordare facilmente:

Ogni volta che facciamo pratica, miglioriamo dell’1% rispetto a prima.

Questa dell’1% è la nostra assunzione fondamentale su un modello dell’apprendimento molto semplificativo, non per forza realistico, ma che rende l’idea degli ordini di grandezza (è il modus operandi dei fisici).

Il punto è che è proprio quel 1% che ci scoraggia: ai nostri occhi è troppo poco!

Immaginiamo però di fare pratica “n“-volte su qualcosa che vogliamo imparare, e indichiamo con “Bi” la nostra bravura al tentativo “i“-esimo. All’inizio siamo completamente ignoranti perché abbiamo fatto zero tentativi, quindi la nostra bravura sarà indicata con “B0“. Dopo un tentativo, siamo migliorati solo dell’1% rispetto a prima. In formule ciò significa che la nostra bravura “B1” dopo il “tentativo 1″ sarà

Dopo 1 tentativo saremo l’1% più bravi di prima

Ora la nostra bravura è “B1“, per cui la prossima volta che faremo pratica miglioreremo ancora dell’1%, ma stavolta la nostra base di partenza è “B1” quindi al tentativo “2″ la nostra bravura “B2” sarà

Dopo 2 tentativi saremo l’1% più bravi di prima, ma ora non stiamo partendo da zero!

Detta così non sembra chissà cosa, ma ricordiamoci da dove siamo partiti: bisogna confrontarsi con la propria bravura di partenza “B0” inserendo l’espressione di “B1” nell’equazione precedente:

Al secondo tentativo siamo più bravi di un fattore (1.01)2=1.0201

Al secondo tentativo saremo un fattore (1.01)2=1.0201 più bravi del nostro stato iniziale, cioè un miglioramento del 2.01%.
D’altronde che ci aspettavamo? Se migliori dell’1% a ogni tentativo, è chiaro che dopo due tentativi sarai migliorato del 2%! Invece è proprio qui che la matematica degli esponenziali prende il sopravvento: nota che non siamo migliorati del 2%, ma del 2.01%, quel 0.1% in più fa tutta la differenza del mondo.

Magia esponenziale

Applicando “x“-volte lo stesso ragionamento, dopo “x“-tentativi saremo più bravi di un fattore:

Ad esempio al decimo tentativo non saremo migliorati del 10%, ma un po’ di più, perché (1.01)10 rappresenta invece un miglioramento del 10.46%. Sembra ancora molto poco, eppure le cifre decimali stanno crescendo abbastanza in fretta grazie al modello esponenziale.
Tuttavia il nostro cervello penserà di aver capito la matematica: “sì va bene, la nostra bravura crescerà, ma crescerà sempre molto poco, è intuitivo”. Il cervello ha un modo di ragionare lineare: “se sono migliorato di poco le prime volte, allora migliorerò di poco anche tutte le volte successive!”. In questo ragionamento si trascura però un punto fondamentale: ogni volta che facciamo un nuovo tentativo non stiamo più partendo da zero, ma stiamo accumulando esperienza dai tentativi precedenti. Il cervello non è bravo a capire questo dettaglio.
Per questo motivo ci immaginiamo che il grafico del progresso sia una retta y=mx:

Quello che ci immaginiamo quando stiamo imparando qualcosa di nuovo: il nostro cervello ragiona in maniera lineare.

Quindi il cervello si immagina che la differenza tra i nostri stati di bravura finale e iniziale stia in proporzionalità diretta con il numero di tentativi “x“, cioè “Bx-B0=0.01x”, (dove 0.01 è il miglioramento del 1%) che ha il seguente grafico:

Il grafico “mentale” che ci suggerisce di smettere di imparare: meglio lasciar stare, non si migliorerà mai.

Il punto cruciale è che questo grafico non è un modello sufficientemente realistico dell’apprendimento: ogni volta che impari un po’ di più, non stai partendo da capo! Un modello più realistico che tiene conto di ciò è invece quello esponenziale che abbiamo visto sopra, anche se è difficile accorgersi della differenza almeno all’inizio. Ciò è evidenziato nel seguente grafico in cui confronto i due modelli di crescita (esponenziale e lineare) fino a un numero 70 di tentativi:

I due andamenti (quello mentale e quello reale) sono quasi indistinguibili nei primi 70 tentativi. Il nostro cervello è bravo ad approssimare la realtà, ma qualcosa succede dopo il numero 70…

Anche se teniamo in conto di “non partire sempre da zero” e usiamo il modello di crescita esponenziale, i progressi che facciamo sono abbastanza trascurabili, almeno fino al tentativo 70, dopodiché entra in gioco la magia dell’esponenziale! Il grafico in rosso inizia a crescere leggermente di più del grafico in blu. Se aumentiamo ancora il numero di tentativi, arriviamo a questo risultato spettacolare:

Dopo tantissimi tentativi, i miglioramenti rispetto al nostro stato iniziale schizzano alle stelle. L’andamento è esattamente analogo a quello dell’interesse composto.

Riflettiamo un attimo davanti a questo grafico: noi tutti siamo soliti mollare la pratica ben prima del settantesimo tentativo, proprio perché osserviamo pochissimi progressi rispetto al nostro stato iniziale. Spesso ci sembra anzi di fare passi indietro, vuoi per via della scarsa memoria, vuoi perché semplicemente abbiamo capito male qualcosa che pensavamo di aver capito. Il punto è che i miglioramenti arrivano solo dopo centinaia e centinaia di tentativi: ad esempio dopo aver praticato qualcosa 300 volte, migliorando dell’1% ogni volta, arriviamo a diventare più bravi circa del 1878%!

Ne deduciamo che in molte cose della vita non è solo il talento innato che ci permette di fare progressi.
Ovviamente se uno ha un talento innato non migliorerà dell’1% ogni volta, ma magari del 3%. Poco importa, vorrà dire che per diventare eccellente farà 200-300 tentativi in meno di noi, il punto è che compararsi con gli altri ha poco valore nel momento in cui ci concentriamo nel percorso dello scalatore: il fine non è imparare “la cosa” in particolare, ma godersi il sentiero.

In verde: una persona che migliora del 3% ogni tentativo. In rosso: una persona che migliora del 1% ogni tentativo.
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Questo discorso mi ha portato a ragionare su un aspetto importante: nella vita possiamo potenzialmente scegliere qualunque lavoro vogliamo, indipendentemente dai nostri talenti (a meno che quel lavoro non ci faccia proprio ribrezzo). Il punto sta nel capire quanti tentativi siamo disposti a fare prima di raggiungere un livello che pensiamo possa essere redditizio.
La volontà, dopo un lungo cammino, ci porta dovunque. Il talento ci porta dovunque, in aereo.

Per quanto riguarda ciò di cui mi occupo io, mi verrebbe da dare proprio questa risposta:
“Ok, ti piace la Fisica e vorresti impararla come hobby, ma quanti tentativi saresti disposto a fare? Pensi che se non migliorerai subito entro qualche mese sarà il caso di mollare? Pensi che sia necessario passare notte e giorno sui libri per tutto il resto della tua vita per vedere un miglioramento del 30%?”

Siamo ossessionati dal successo immediato, quindi l’idea di studiare una materia complicata si trasforma subito in una questione di vita o di morte: “Non ho il talento, per capirci qualcosa dovrei dedicarci il 90% della mia giornata!”, la mia risposta invece è “Non è umanamente possibile pretendere di dedicare a un hobby una percentuale così grossa dell’esistenza quotidiana, ma è certamente possibile migliorare di una percentuale insignificante, tipo l’1%, ogni mese per tutto il resto della propria vita”.
L’elefante si mangia a pezzetti.


PS. ho scritto un libro di testo che rappresenta proprio ciò che avrei desiderato leggere all’inizio dei miei studi di Fisica teorica, per renderla accessibile agli amatori e insegnare le tecniche matematiche necessarie a una sua comprensione universitaria. Si chiama “L’apprendista teorico” , dai un’occhiata per vedere di cosa si tratta. Il libro è acquistabile su Amazon.

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