Nel mondo di oggi, un “Einstein” verrebbe pubblicato?

Propongo una personalissima riflessione che, in quanto tale, va presa con le pinze ed è aperta alla discussione. La riflessione riguarda il sistema odierno dell’editoria scientifica.

L’articolo originale del 1905.

Nel 1905 (118 anni fa) veniva pubblicato “Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento“, articolo con cui Einstein ha iniziato una vera e propria rivoluzione non solo nella fisica, ma anche nella cultura generale.

La rivista da cui venne pubblicato era una delle più prestigiose nel panorama tedesco ed europeo: la “Annalen der Physik“, e tra gli editori c’era nientemeno che il celebre Max Planck.

Fu proprio Planck uno dei primi garanti della qualità del lavoro di Einstein sulla relatività. Nello stesso anno Planck aveva accettato di pubblicare un altro lavoro di Einstein, quello sull’effetto fotoelettrico, nonostante per lui l’idea dei “quanti di luce” fosse un po’ indigesta [1]. Invece l’articolo sulla relatività fu presentato nel giugno 1905 e pubblicato il settembre successivo, e già in novembre Planck espresse pubblicamente il suo apprezzamento [2].

Oggi questa scala temporale di eventi sarebbe altamente improbabile, dobbiamo infatti ricordare che Einstein all’epoca lavorava in un ufficio brevetti e faceva il fisico solo “part-time”, ovvero non aveva nessun prestigio accademico che gli garantisse pubblicazione immediata. Solo la grande qualità del suo lavoro e la lungimiranza degli editori potevano fare la differenza.

Perché questo discorso sia così importante lo si capisce bene dal fatto che uno degli aspetti fondamentali del metodo scientifico è proprio la riproducibilità dei risultati, la quale passa per un’attenta revisione del lavoro di un ricercatore da parte di un altro collega dello stesso campo. Questa revisione è nota come “revisione tra pari”, in inglese “peer review“.

Possiamo “fidarci” della Scienza e dei suoi costrutti proprio grazie a questo processo di revisione: non importa chi tu sia, se hai detto una evidente castroneria io devo rigettare il tuo risultato. Spesso questo sistema funziona molto bene, e viene garantita una buona scrematura dei lavori in modo tale che rimangano solo le idee migliori.

A volte funziona un po’ meno bene: la revisione può risultare un po’ troppo soggettiva, può dipendere dalla luna storta di chi la fa, o semplicemente può capitare che la rivista tratti temi con una filosofia diversa da quelli perseguiti nell’articolo.

Per fare un esempio, l’articolo-capolavoro di Enrico Fermi “Tentativo di una teoria sull’emissione dei raggi beta” fu rifiutato da Nature nel 1934 perché secondo i gusti dell’editore conteneva troppe speculazioni.

All’epoca però non era inusuale che tanti articoli passassero con una revisione minima, se non assente. Che poi sopravvivessero o meno il test del tempo lo avrebbero detto gli altri colleghi negli anni, nei dibattiti alle conferenze ad esempio. In ogni modo, la revisione tra pari era comunque presente ed importantissima. Avveniva però spesso grazie all’influenza di una illustre personalità (l’editore) che si incaricava di decidere se fosse interessante pubblicare o meno. Una “de facto” peer review, senza troppa scrupolosità.

La rivista in un certo senso rappresentava anche quello che potrebbe essere definito “archivio delle proposte”, ruolo che oggi è ricoperto da siti come Arxiv, PubMed etc., i quali sono dei database in cui vengono caricate le versioni “bozze” (chiamati preprint) degli articoli da proporre alle riviste. Oggi, per via dell’enorme volume di articoli proposti dalle accademie [3] il processo di peer review diventa più che mai fondamentale per garantire la corretta scrematura.

Funziona così: l’editore della rivista incarica uno (o più) revisori di studiare l’articolo, affidando a loro la decisione (in sua vece) se pubblicare o meno il lavoro.

Se il livello è, come nei campi della Fisica, altissimo di per sé, la scrematura diventa ancora più spietata. La rivista non può pubblicare tutti i lavori (indipendentemente dalla qualità dei lavori), dovrà quindi inevitabilmente rigettare anche qualche ottimo articolo. Il motivo? Possono essercene diversi, alcuni ragionevoli, altri un po’ meno:

  • l’articolo non è conforme agli interessi della rivista;
  • l’articolo ha un contenuto simile a uno già pubblicato, con piccole variazioni non degne di pubblicazione;
  • l’articolo non è conforme alle credenze di chi fa la revisione (l’ho sentito dire!);
  • l’articolo va in una direzione sconosciuta a cui nessuno è interessato (i fondi vanno in altre direzioni);
  • l’articolo è troppo speculativo, troppo filosofico, o in generale contiene troppe supposizioni personali.

La lista potrebbe andare avanti, figure inserite male, tabelle non chiare, chi più ne ha ne metta: quanti più motivi possibili pur di non pubblicare il 100% degli articoli che arrivano in revisione. Non importa chi tu sia, il tuo articolo può comunque essere rigettato a volte per motivi che sfuggono il tuo controllo.

Questa circostanza è una naturale conseguenza dell’incredibile volume di articoli prodotti ogni mese, non è una cosa né giusta né sbagliata, va accettata in virtù del metodo scientifico. Di sicuro la scrematura riesce spesso ad eliminare gli articoli davvero terribili.

Tuttavia viene da riflettere: la scrematura sopracitata rischierebbe forse di eliminare anche gli articoli più rivoluzionari?

Questa opinione è condivisa da Lorraine Daston in una sua intervista [4].

Analizziamo l’articolo di Einstein “Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento“:

Quello evidenziato in giallo è un eccezionale esempio di chiarezza espositiva ed attenzione pedagogica nei confronti del lettore. Secondo la Daston un revisore per una rivista prestigiosa di oggi smetterebbe di leggere già da qui. Lo stile di Einstein era notoriamente un po’ verboso, speculativo, filosofico. A posteriori è la ciliegina sulla torta di un capolavoro scientifico, ma oggi potrebbe essere potenzialmente oggetto di “taglia quella parte o non te lo pubblicheranno mai”.

Inoltre salta subito all’occhio un altro fatto: l’articolo di Einstein non ha bibliografia. Albert non cita nessuno. Un peccato veniale che oggi potrebbe portare all’esclusione dell’articolo (o, più ragionevolmente, a un marcato sollecito di aggiungerla).

In nessun modo questa riflessione vuole intaccare la illuminante produzione scientifica di Einstein, ma credo che possa stimolare una discussione sui potenziali lati negativi della professionalizzazione della scienza. L’edificazione di questi sistemi editoriali è una risposta all’ingente numero di preprint (a sua volta dovuto alla ignobile politica del “publish or perish“), dunque la domanda è: dobbiamo in qualche modo ripensare tutta questa infrastruttura?

Bibliografia

[1] Seelig Carl, Albert Einstein: A documentary biography, Translated to English by Mervyn Savil
[2] Hoffmann Banesh and Dukas, Helen, Albert Einstein Creator & Rebel, 1973, New York: A Plume Book, pp. 83-84.
[3] Bornmann, L., Haunschild, R. & Mutz, R. Growth rates of modern science. Humanit Soc Sci Commun 8, 224 (2021). 
[4] Loncar Samuel, Does Science Need History? A conversation with Lorraine Daston, Meanings of Science Project MRB Interviews 2022.


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Matteo Parriciatu

Dopo la laurea in Fisica (2020) e la magistrale in Fisica Teorica (2023) all’Università di Pisa, fa ricerca sulle simmetrie di sapore dei leptoni e teorie oltre il Modello Standard.

È membro della Società Italiana di Fisica.

È autore del libro “L’apprendista teorico” (2021).

“Smarriti nella matematica”? Gli ultimi tristi anni di Albert Einstein

Gli ultimi anni della vita di Einstein furono decisamente poco memorabili (scientificamente parlando). Il più grande fisico del XX secolo fu un po’ vittima dei suoi enormi successi giovanili, i quali lo condussero verso un isolamento intellettuale sempre più marcato.

Einstein sognava di unificare gravità ed elettromagnetismo in un unica, elegante “teoria del tutto”. Ovviamente nella sua epoca non si conoscevano ancora le forze nucleari debole e forte.

Uno dei motivi di questo isolamento era che Einstein rigettava la formulazione convenzionale della meccanica quantistica, che secondo lui era una teoria incompleta, esteticamente “sgraziata” e complicata.
Purtroppo il 99% della ricerca in fisica fondamentale dagli anni 20′ in poi si basava invece proprio sulla meccanica quantistica, quindi Einstein aveva ben pochi alleati su questo fronte.

Un altro motivo era dovuto a una sua ossessione: aveva il sogno di unificare due forze fondamentali, gravità ed elettromagnetismo. Queste due forze erano descritte da quelle che allora erano due teorie classiche di campo molto mature (classiche nel senso che non erano “quantizzate”. La quantizzazione dell’elettromagnetismo fu accuratamente ignorata da Einstein…)

Questa sua ossessione si fondava sul credere che la Natura avesse in serbo una teoria “elegante”, scritta con una matematica “bellissima” che lui era intenzionato a scoprire.


Effettivamente le teorie classiche di gravità ed elettromagnetismo erano due teorie, per certi versi, abbastanza simili (almeno nei temi).

Infatti la Relatività Generale di Einstein e l’Elettrodinamica classica possono essere entrambe costruite richiedendo che le loro equazioni rimangano invariate dopo che si eseguono certi tipi di trasformazioni sui loro campi fondamentali.

La ridondanza elettromagnetica

Il potenziale elettromagnetico quadri-dimensionale con cui viene formulata l’elettrodinamica (che chiamiamo A_\mu) presenta al suo interno un eccesso di informazioni. Che significa? Significa che per formulare l’elettromagnetismo è sufficiente un numero inferiore di parametri teorici rispetto a quelli forniti dalla formulazione 4-dimensionale della teoria (che con successo concilia l’elettromagnetismo di Maxwell con la relatività speciale).

Da un certo potenziale elettromagnetico sono ottenibili, tramite una specifica trasformazione, una serie di altri potenziali elettromagnetici che tuttavia lasciano invariate le leggi di Maxwell scritte con il potenziale originale. Le conclusioni fisiche sono le stesse.

Questo eccesso di informazioni si traduce nella seguente affermazione: il potenziale quadri-dimensionale può essere “traslato” nello spazio-tempo di una certa quantità, e la conseguenza è che l’elettromagnetismo rimane invariato.

Le equazioni non cambiano, la Fisica è la stessa.


Il motivo di ciò fu spiegato dalla teoria quantistica dei campi: quello che succede è che il fotone (la particella mediatrice dell’interazione elettromagnetica) ha massa nulla, e questo fa tutta la differenza del mondo in relatività speciale, perché può quindi muoversi alla velocità della luce (non è un grande sorpresa per te che la luce si muova alla velocità della luce).

I parametri che partecipano alla Fisica dell’elettromagnetismo si chiamano “stati di polarizzazione” (avrai sentito parlare degli occhiali polarizzati, ecco quel “polarizzato” si riferisce alla volontà di sfruttare le polarizzazioni della luce a proprio piacimento). La polarizzazione è per convenzione la direzione di oscillazione della campo elettrico di un’onda elettromagnetica (chiamata comunemente “luce”).

Dal punto di vista teorico, gli stati di polarizzazione possono essere studiati mettendoci nel sistema di riferimento in cui la particella mediatrice è ferma. Questi stati di polarizzazione hanno a che fare con la seguente domanda: che succede se ruoto il campo della particella nel suo sistema di riposo?
Il modo in cui il campo risponde alle rotazioni ci dà un’indicazione sui suoi stati di polarizzazione.

La quantità di moto di un oggetto fermo è nulla (per definizione di oggetto fermo), quindi se ruotiamo i nostri assi cartesiani la quantità di moto rimane la stessa (cioè nulla). Che furbata, eh? Beh questa libertà di ruotare le tre dimensioni si traduce in tre possibili stati di polarizzazione della particella.

Una rotazione attorno ad un asse è specificata da due componenti su un piano. In figura stiamo ruotando attorno all’asse z. Immagina che l’asse z sia la direzione di propagazione del fotone.

Il problema con il fotone è che avendo massa nulla si muove alla velocità della luce e quindi per via della relatività speciale non c’è modo di mettersi in un sistema di riferimento in cui il fotone è fermo: per ogni osservatore la velocità della luce è la stessa! Non riusciremo mai ad andare abbastanza veloci da vedere un fotone fermo! Il valore della velocità della luce non dipende in alcun modo dalla velocità di chi la misura.

Il meglio che possiamo fare è puntare il nostro asse cartesiano nella direzione di propagazione del fotone e studiare le rotazioni dei suoi stati attorno a questo asse. Le rotazioni attorno a un asse avvengono in un piano, il quale, essendo bidimensionale, è rappresentato da due parametri invece che tre. Quindi il fotone è specificato da solo due possibili stati di polarizzazione: solo due stati su tre partecipano alla Fisica dell’elettromagnetismo.

Che ce ne facciamo del terzo parametro che non utilizziamo? Ecco cosa intendevo con “eccesso di informazioni”. In soldoni, quella libertà viene tradotta dicendo che se aggiungiamo (o sottraiamo) al potenziale elettromagnetico una certa quantità arbitraria (la derivata di una funzione che chiamiamo \Lambda), le leggi della Fisica non cambiano. A scopo illustrativo questa è la trasformazione di cui parlo:

Il potenziale viene trasformato sottraendolo alla derivata di una funzione \Lambda. In gergo si parla di “trasformazioni di gauge”.

Dalla richiesta che la fisica non cambi se al potenziale elettromagnetico A_\mu aggiungiamo quella funzione arbitraria \partial_\mu \Lambda, discende la struttura matematica (con tanto di conseguenze fisiche) dell’elettromagnetismo.

Questo concetto è molto elegante: dalla richiesta che ci sia una certa ridondanza nella descrizione dei campi della teoria, discendono le equazioni che descrivono la realtà fisica.

So che risulta astratto da capire, ma tra tutte le forme possibili che possono assumere le leggi della fisica, richiedere che rimangano invariate dopo una trasformazione dei “blocchetti” di cui sono composte vincola parecchio il numero di forme possibili in cui possono presentarsi, assieme alle conseguenze fisiche che predicono. È in questo senso che diciamo “da questa richiesta derivano le leggi della Fisica” .

Questa eleganza stregò (e continua a stregare) i fisici teorici dell’epoca. Einstein fu tra i più colpiti.
Lo colpì soprattutto il fatto che la sua teoria della Relatività Generale (la migliore teoria che abbiamo ancora oggi sulla gravità classica) si basava su un principio molto simile.

Le leggi della gravità di Einstein discendono dalla richiesta che le leggi stesse rimangano invariate se si esegue una trasformazione di coordinate. In sostanza, la Fisica non deve dipendere da che tipo di “unità di misura” stai usando, o non deve dipendere dal fatto che il tuo laboratorio risulti ruotato in una certa direzione rispetto al centro della galassia (per esempio).

A grandi distanze dalla sorgente del campo gravitazionale, che chiamiamo h_{\mu\nu}, la trasformazione di coordinate del campo (la quale viene indicata con il simbolo \partial_\mu \epsilon_\nu) ha la seguente forma:

Magari non sarai familiare con la notazione degli indici spazio-temporali \mu,\nu , ma il punto della faccenda è notare la somiglianza (chiudendo un occhio) con la trasformazione del potenziale elettromagnetico:

Elettrodinamica (sopra) e gravità (sotto) a confronto. Entrambe queste trasformazioni hanno la proprietà di lasciare invariate le leggi della Fisica.

Secondo Einstein, questa somiglianza era una chiara indicazione che doveva esistere una teoria più fondamentale in grado di racchiudere gravità ed elettromagnetismo in un unico, elegantissimo linguaggio matematico.

Risulta interessante il fatto che non fu lui ad arrivare per primo ad un possibile tentativo di unificazione. La teoria di Kaluza-Klein nacque praticamente subito dopo la Relatività Generale, ed Einstein ne rimase estasiato.

Il primo tentativo di unificazione

La Kaluza-Klein si basava sul postulato che allo spaziotempo (già 4-dimensionale) dovesse essere aggiunta un’ulteriore dimensione, portando il totale a cinque. Questa dimensione sarebbe tuttavia troppo piccola per potere avere riscontri sperimentali, e la sua utlilità consiste unicamente nel fatto che in questo modo è possibile unificare gravità ed elettromagnetismo in un’unica elegante equazione di partenza.

La quinta dimensione nella teoria di Kaluza-Klein.

Tutti noi per disegnare un punto su un foglio ruotiamo leggermente la punta della penna per tracciare dei piccoli cerchi concentrici attorno a un punto fisso. Secondo la teoria Kaluza-Klein la quinta dimensione si nasconde nel bordo di ogni cerchio che circonda ciascun punto dello spaziotempo. Questi cerchi hanno un raggio R piccolissimo, molto più piccolo di qualsiasi scala subnucleare, questo è il motivo per cui non si osservano effetti fisici di tutto ciò.

Sfortunatamente la teoria della quinta dimensione ha serie difficoltà teorico-fenomenologiche: ad esempio ignora completamente l’esistenza delle altre interazioni fondamentali come la forza debole, della quale oggi sappiamo che a una certa scala di energia si unisce alla forza elettromagnetica per formare l’interazione elettrodebole.
Chiaramente Kaluza e Klein, avendo formulato la teoria nei primi anni ’20 , conoscevano solo la gravità e l’elettromagnetismo, per cui a detta loro (e anche di Einstein) la teoria era molto promettente.

Furono proprio le scoperte delle altre due forze fondamentali (quelle nucleari debole e forte) a far cadere nel dimenticatoio la Kaluza-Klein per qualche decennio. La teoria quantistica dei campi produceva risultati a un ritmo elevatissimo, spazzando via come un’onda tutte le teorie classiche di campo.

Einstein, che si assicurava di non utilizzare le teorie quantistiche di campo nei suoi lavori, lavorò alla Kaluza-Klein fino agli inizi degli anni ’40. Il suo obbiettivo era di ottenere, dalle soluzioni delle equazioni di campo della teoria a cinque dimensioni, dei campi che descrivevano delle particelle cariche in grado di interagire elettromagneticamente e gravitazionalmente.


Il suo obbiettivo era anche quello di derivare in qualche modo anche la meccanica quantistica a partire dalla sua teoria classica (non quantizzata). Tutto questo era sempre in linea con il suo intuito che la teoria quantistica non fosse completa, e che dovesse derivare da qualcosa di classico e molto più profondo.

Una volta introdotta l’ipotesi ondulatoria di De Broglie, il fisico Klein (uno degli ideatori della Kaluza-Klein) era stato in grado di spiegare anche la discretizzazione della carica elettrica delle particelle, proprio grazie alla quinta dimensione. Einstein evitò con cura di utilizzare l’ipotesi di De Broglie, e non menzionò mai il risultato di Klein. Insomma, se non si era capito, Einstein non apprezzava la teoria quantistica.

In ogni caso, Einstein concluse che la teoria di Kaluza-Klein non era in grado di spiegare un fatto empirico importantissimo: la gravità è estremamente più debole dell’elettromagnetismo. Questo spinse Einstein ad abbandonare per sempre la teoria dopo il 1941.

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Continuò quindi a lavorare, assieme a pochissimi altri, a teorie matematiche molto astratte e con pochi risvolti empirici. L’obbiettivo era sempre quello di unificare elettromagnetismo e gravità.

Non che fosse in torto nel perseguire questa sua ricerca, dato che l’obbiettivo delle teorie di grande unificazione che studiamo oggi è proprio quello di conciliare gravità e teorie quantistiche di campo (quindi non solo gravità ed elettromagnetismo, ma gravità e le altre tre interazioni fondamentali. Per una breve esposizione delle quattro interazioni, rimando al mio articolo).

Tuttavia fu proprio il suo ostentato rifiuto delle teorie quantistiche di campo a isolarlo sempre di più dal panorama scientifico internazionale. Anche se avesse fatto in tempo ad assistere alla sua nascita, Einstein non avrebbe mai approvato il nostro Modello Standard: in tale modello lavoriamo con teorie quantistiche basate solo sulla relatività speciale, ignorando completamente la gravità e lasciandola da parte in un settore chiamato “Relatività Generale”.
Invece secondo lui la gravità doveva avere un ruolo di primaria importanza negli sforzi dei fisici teorici:

Cosa sarebbe la Fisica senza la gravitazione?

Albert Einstein

Lavorò alla grande unificazione fino all’ultimo dei suoi giorni, facendo fede sulla sua convinzione (appartenente a un pensiero illuminista oggi superato) che una singola mente umana è in grado di scoprire ogni mistero dell’universo.

Sono comunque sicuro che a lui piacesse parecchio ciò che faceva, e non poteva esserci una fine più lieta per il più grande fisico del secolo scorso: morire “smarrito nella matematica”.


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Matteo Parriciatu

Dopo la laurea in Fisica (2020) e la specializzazione in Fisica Teorica (2023) all’Università di Pisa, è dottorando presso l’Università degli Studi Roma III, dove studia simmetrie di sapore dei leptoni e teorie oltre il Modello Standard.

È membro della Società Italiana di Fisica.

È autore del libro “L’apprendista teorico” (2021).

Come la Relatività si intuisce meglio attraverso la geometria

Sono trascorsi quasi 117 anni da quando l’umanità ha capito che la nostra realtà è meglio descritta utilizzando una struttura concettuale che lega indissolubilmente spazio e tempo: lo spaziotempo.
Siamo cioè passati da una concezione tridimensionale della nostra realtà a una concezione quadridimensionale.

Infatti, anche se non sappiamo ancora cosa siano oggettivamente spazio e tempo e quindi ne possiamo avere solo un’interpretazione che ci aiuta comunque a fare previsioni molto precise sulla realtà, sappiamo per certo che non sono due entità distinte: spazio e tempo sono malleabili, e dal punto di vista di osservatori diversi possono anche mischiarsi tra loro.

Ritengo che oggi questo argomento debba essere divulgato con la stessa semplicità e chiarezza con cui nelle scuole divulghiamo tanti altri fatti scientifici. Infatti dopo quasi 117 anni non possiamo più catalogare la Relatività Ristretta come “fisica moderna”, proprio allo stesso modo in cui Einstein nel 1905 non si riferiva alla meccanica lagrangiana del 1790 con il nome di “fisica moderna”.

Il modo migliore per spiegare la nostra comprensione dello spaziotempo è quello di fare un passo indietro e studiare come la pensavamo qualche secolo fa.

I quattro numeri della nostra realtà

Un oggetto tridimensionale della nostra realtà.

La nostra intuizione sensoriale ci suggerisce che viviamo in uno spazio tridimensionale, infatti gli oggetti hanno una lunghezza, larghezza e altezza. Per descrivere un oggetto a un’altra persona senza fargli vedere una sua fotografia possiamo misurarlo e poi dirle quanto è lungo, largo e alto: tre numeri, niente di più e niente di meno, perché tre sono le dimensioni che percepiamo dello spazio attorno a noi.

Allo stesso modo, quando vogliamo descrivere i fenomeni che accadono intorno a noi dobbiamo essere in grado di dire dove si sono verificati e in che istante di tempo. Per capirsi tutti al volo sul “dove”, sono state inventate le mappe e i sistemi di coordinate che scandiscono lo spazio intorno a noi con dei numeri ben precisi, mentre per essere tutti d’accordo sul “quando” è stato inventato l’orologio, che scandisce con altri numeri ben precisi lo scorrere di una misteriosa entità che chiamiamo “tempo”.

Un evento è per definizione l’unione tra le tre informazioni spaziali sul “dove” e la singola informazione temporale sul “quando”. Quando diciamo “alle 15:06 di ieri si è rotto il vaso nella veranda di nonna” stiamo assegnando all’evento “Rottura del vaso” le coordinate geografiche “veranda di nonna” e la coordinata temporale “ora locale 15:06″. In totale sono quattro numeri: tre spaziali e uno temporale.

In totale un evento è descritto da quattro numeri: per seguire i fenomeni che accadono intorno a noi non possiamo usare meno di quattro numeri o rischieremmo di non farci comprendere dagli altri.

Lo spazio e il tempo prima del XX secolo

In passato i fisici si fecero guidare dall’intuizione e immaginarono spazio e tempo come due entità separate. Questo perché nulla nell’esperienza di tutti i giorni ci farebbe intuire il contrario. Per quei fisici, l’immagine mentale del “tempo” è proprio la stessa che intuiamo dalla vita di tutti i giorni:

La freccia del tempo.

Il tempo è una retta infinita che si estende dall’infinito passato fino all’infinito futuro, ma che ha un’unica orientazione: scorre solo verso il futuro.

Per i fisici del passato esisteva un’unica freccia del tempo universale: ogni evento dell’universo accadeva in un preciso istante di tempo su cui potenzialmente tutti possono concordare.

Vediamo la conseguenza del ragionamento di quei fisici. Supponiamo che una persona si metta d’accordo con un astronauta prima della sua partenza e che sincronizzino i propri telefoni in modo da far partire una suoneria ogni 8 ore per il resto della loro vita. In questo modo quando l’astronauta si troverà su Marte e sentirà la suoneria del proprio telefono, saprà che in quel preciso istante di tempo il suo amico sulla Terra avrà sentito la stessa suoneria. I due amici potranno quindi definire un istante chiamato “presente”, cioè una nozione di “adesso”.
Se non vedi nulla di strano in questa conseguenza, è perfettamente comprensibile! Siamo abituati a concepire il tempo in questo modo, cioè come un’entità universale che scorre allo stesso modo per tutti, e i fisici del passato non erano comunque scemi nonostante pensassero ciò!

Il moto di una pallina in una sola dimensione può in principio essere studiato con righello e cronometro.

Spazio e tempo non sarebbero comunque granché utili se non li facessimo “cooperare” per provare a fare delle previsioni sul mondo che ci circonda.
Per studiare il moto di una pallina su un tavolo potremmo ad esempio utilizzare un righello per tracciare la sua posizione, e un cronometro per tenere traccia del tempo che passa. Così facendo, finiamo per collezionare un insieme di eventi come “pallina nel punto 2.5 cm all’istante 1.51 s” o “pallina nel punto 4.7 cm all’istante 2.05 s” che messi in successione tra loro costituiscono la traiettoria della pallina.

Usiamo una sola coordinata spaziale per semplicità: il moto si svolge su una sola dimensione spaziale..

Se sei familiare con il concetto di piano cartesiano, possiamo scegliere di rappresentare gli eventi raccolti su di esso, solo che al posto di “y” mettiamo il tempo “t” trascorso. A differenza di un piano geometrico bidimensionale, abbiamo ora davanti un piano spaziotemporale (in gergo “1+1 dimensionale“, cioè una dimensione spaziale, che è la “x”, e una dimensione temporale):

Un diagramma spazio-tempo per il moto di una pallina.

Se collezionassimo tantissimi eventi per il moto della pallina e collegassimo tutti i puntini blu con una linea continua, troveremmo quella che è nota essere la traiettoria della pallina.
Se la pallina fosse ferma in ogni istante di tempo, la sua traiettoria nello spazio-tempo sarebbe la seguente

Il grafico spazio-tempo di una pallina ferma nel punto x=2.5 cm.

Questo perché la coordinata “x“, per definizione di “fermo”, non deve cambiare nel tempo. Il tempo scorre in verticale, e la posizione rimane fissa sul punto x=2.5 cm.
Un pallina che si muove con velocità costante avrebbe invece il seguente grafico:

A parità di intervallo di tempo passato, la pallina percorre sempre porzioni uguali di spazio: la velocità è allora costante.

Potremmo anche non limitarci al moto dei corpi e usare i diagrammi spaziotempo per raccogliere tutti gli eventi della nostra realtà!

Ad esempio tutti gli eventi dello spazio che avvengono allo stesso istante di tempo si ottengono tracciando la retta parallela all’asse “x”. Questa retta è detta “linea di simultaneità

Tutti gli eventi spaziali che avvengono all’istante “t=2 s” fanno parte della linea di simultaneità in arancione.

Scorrendo con il dito lungo la retta arancione, il tempo non cambia, è sempre fisso a “t=2 s”, mentre lo spazio cambia. Stiamo esplorando tutti i punti dello spazio che esistono nel medesimo istante di tempo.

Allo stesso modo possiamo raccogliere tutti gli eventi che avvengono nello stesso punto dello spazio tracciando la retta parallela all’asse “t”, come fatto nel caso della pallina ferma.

Il punto importante da capire però è che lo spaziotempo esiste indipendentemente dal nostro diagramma cartesiano. Il diagramma con cui scegliamo di catalogare gli eventi si chiama “sistema di riferimento” ed è totalmente arbitrario. Decido io quando far iniziare il conteggio del cronometro e decido io dov’è il punto di partenza in cui mettere lo zero del righello. Nonostante ciò, il moto della pallina avviene comunque in uno spaziotempo “invisibile”, e le coordinate che uso per descriverlo non sono altro che una mia personale interpretazione con cui posso fare delle previsioni.

L’evento nello spaziotempo esiste anche se non c’è nessun sistema di riferimento che lo descrive. Lo spaziotempo esiste indipendentemente dai sistemi di riferimento.

Proprio per questo motivo, la Fisica prevede che le sue leggi si mantengano vere indipendentemente dalle coordinate di chi le sta utilizzando. Non avrebbe proprio senso se la realtà dipendesse dal tipo di righello o cronometro che uso!

Le trasformazioni di Galileo

Galileo Galilei, l’ideatore del principio di relatività.

In particolare, come studiato da Galileo, le conclusioni degli esperimenti di Fisica devono essere identiche a seconda che siano studiate su un treno che si muove a velocità costante o che stia fermo rispetto alla stazione. Muoversi a velocità esattamente costante è comunque una cosa rara, concorderai sicuramente che capita spesso di sentirsi “tirati” in una direzione o in un’altra in un viaggio in macchina, o in treno quando frena o fa una curva. In quei frangenti il moto non è a velocità costante, ma trascurandoli possiamo dire che il resto del viaggio si svolge in maniera che se oscurassi i finestrini e mascherassi il suono del motore, non saresti in grado di dire se si è fermi o in movimento. Questa è l’idea di Galileo: il principio di relatività.

Se mettiamo tre persone di tre nazionalità diverse davanti a una mela su un tavolo, ciascuna delle tre persone dirà nella propria lingua “la mela è sul tavolo”. Il fatto che la mela stia sul tavolo è un dato di fatto che non può dipendere dalla particolare lingua che si utilizza per descriverlo.
Siccome l’obbiettivo degli umani è comunicare tra loro, deve esistere una traduzione da un linguaggio all’altro che mantenga intatto il fatto oggettivo che la mela è sul tavolo.

Allo stesso modo, sistemi di riferimento in moto relativo l’uno con l’altro devono poter concordare sui fenomeni che osservano con le proprie coordinate. Deve quindi esistere una traduzione da un set di coordinate all’altro che mantenga intatto il fatto oggettivo di ciò che si manifesta nello spaziotempo.

Se il moto relativo è a velocità costante, la traduzione linguistica è particolarmente semplice e lascia inalterati tutti i risultati della Fisica: si chiama trasformazione di Galileo.

Dati due osservatori che utilizzano due piani cartesiani diversi con coordinate diverse:

Se “v” è la velocità relativa, possiamo ottenere le coordinate di uno in funzione delle coordinate dell’altro con una trasformazione di Galileo:

Una trasformazione di Galileo.

Ovviamente abbiamo assunto che i due osservatori abbiano sincronizzato i propri orologi in un certo istante di tempo precedente, ecco perché le loro coordinate temporali sono identiche: T=t.

Con questa traduzione possiamo descrivere con le coordinate dell’osservatore 2 tutti gli eventi descritti in precedenza con le coordinate dell’osservatore 1.

Una cosa concettualmente molto utile per ciò che faremo dopo è rappresentare i due sistemi di riferimento nello stesso grafico. Rispetto all’osservatore 1, gli assi dell’osservatore 2 si ottengono impostando le loro equazioni T=0 e X=0. Infatti l’asse T è anche noto come “la retta verticale tale che X=0“. Quindi possiamo ricavare l’asse T nelle coordinate (x,t) sostituendo “0” al posto di “X

Nel diagramma spazio-tempo di prima avremo quindi

Una trasformazione di Galileo da coordinate (x,t) a coordinate (X,T).

La cosa più importante da notare è che rispetto all’osservatore di coordinate (x,t), l’asse T del secondo osservatore è geometricamente inclinato: questa inclinazione rappresenta il fatto che il secondo osservatore si sta muovendo rispetto al primo con una certa velocità.

Ora studiamo un po’ come questi osservatori interpretano lo spaziotempo intorno a loro. Le linee di simultaneità sono sempre rette parallele agli assi x e X per definizione:

I punti dello spazio simultanei tra loro secondo l’osservatore (X,T) sono simultanei anche per l’osservatore (x,t). Per verificare, scorri una retta arancione con il dito e verifica che non ti stai spostando né sulla coordinata t, né sulla coordinata T.

Le trasformazioni di Galileo non toccano la simultaneità: il tempo, nella concezione galileiana e newtoniana della fisica classica, è assoluto.

Ovviamente invece il discorso cambia se consideriamo gli eventi che avvengono in un unico punto nello spazio dell’osservatore in movimento. Magari l’osservatore 2 è in auto e sta segnando sul taccuino la posizione di un suo compagno di viaggio che è fermo rispetto a lui in ogni istante di tempo. Tuttavia dal nostro punto di vista in cui osserviamo l’autostrada da un casello, quel compagno di viaggio non è fermo!


Come abbiamo fatto prima, per ottenere le rette degli eventi che avvengono nello stesso punto dello spazio tracciamo le parallele all’asse T, quindi si avrà:

Le rette degli eventi che per l’osservatore (X,T) avvengono tutti in uno specifico punto del suo sistema di riferimento.

Come puoi notare, le rette non sono verticali anche per l’osservatore fermo (x,t), proprio perché dal suo punto di vista tutti quegli eventi che sono fissi nel sistema di riferimento (X,T) si muovono alla stessa velocità di questo. Infatti le rette hanno la stessa inclinazione dell’asse T, che rappresenta, come detto, il moto dell’osservatore 2.

Il tuo occhio potrebbe ora notare un fatto interessante: dal grafico sembra che l’intervallo temporale ∆T tra i due eventi (indicato in rosso), sia maggiore dell’intervallo temporale ∆t, quando invece sappiamo che nelle trasformazioni di Galileo deve essere rigorosamente:

L’intervallo di tempo tra due eventi è un numero su cui tutti gli osservatori connessi da una trasformazione di Galileo devono sempre concordare.

Questo è un dettaglio acutissimo e che potenzialmente potrebbe generare molta confusione. Non se ne parla spesso.

La verità è che quell’asse “T” ruotato non ha la stessa scala di lettura dell’asse originale, proprio per via della rotazione! Una volta tenuto conto di questo fattore di scala, troviamo che anche se visivamente le lunghezze indicate in rosso sembrano diverse, a conti fatti risultano uguali, come ci aspettiamo.

Una dimensione spaziale in più

Ora che abbiamo macinato un po’ di percorso, aggiungiamo una dimensione spaziale in più per divertimento. Assieme alla “x” consideriamo anche la “y” per ottenere il classico, beneamato piano euclideo.
Lo spazio-tempo ha ora dimensione 2+1 (due spaziali e una temporale), e può essere visualizzato nel modo seguente:

La rappresentazione di uno spazio bidimensionale nel tempo, descritta come una sovrapposizione di copie.

Concentriamoci però solo sul piano spaziale senza considerare il tempo, o se preferisci, congeliamo un singolo istante di tempo. Il piano euclideo è proprio quello che ci ha svezzato e ci ha introdotto alla geometria piana, è quel posto magico in cui l’ipotenusa di un triangolo rettangolo è data dal teorema di Pitagora:

Tutti concordano sul teorema di Pitagora, è un fatto matematico che è indipendente dal proprio stato di moto! Se le trasformazioni di Galileo fanno quel che promettono di fare, non dovrebbero mai e poi mai alterare la lunghezza dell’ipotenusa di un triangolo rettangolo! Ci aspettiamo che sia:

Le trasformazioni di Galileo lasciano invariata la geometria euclidea dello spazio.

Effettivamente è così, le trasformazioni di Galileo restituiscono il risultato corretto, lasciando intatto il teorema di Pitagora (non avrebbe proprio senso se dovesse dipendere dallo stato di moto!). Nel caso più semplice in cui il moto relativo è lungo l’asse x dell’osservatore 1 si ha:

Nota che il conto restituisce il risultato che ci aspettiamo solo se poniamo uguale a zero l’intervallo temporale “∆t” tra i due eventi spaziali che specificano i cateti del triangolo rettangolo! Questo passo è fondamentale, le lunghezze spaziali, nello spaziotempo, si calcolano per definizione a tempo fissato. Non avrebbe proprio senso dire “questo oggetto è lungo 3 cm tra gli istanti di tempo 1 e 10 secondi”: un osservatore è in grado di misurare una lunghezza spaziale nel proprio sistema di riferimento solo una volta che individua simultaneamente gli estremi dell’oggetto che vuole misurare.

Ora che abbiamo completato il riscaldamento con la relatività di Galileo, è il momento di passare al succo del discorso, ovvero il motivo per cui sei qui!

Ripensare il principio di relatività

Alla fine del XIX secolo ci si accorse che una serie di argomenti teorici e sperimentali rendevano incompatibili le leggi dell’elettromagnetismo con il principio di relatività, o meglio, con il principio di relatività mediato dalle trasformazioni di Galileo. Siccome l’elettromagnetismo era fondato su radici sperimentali solidissime, e si presumeva che il principio di relatività fosse un qualcosa di irrinunciabile per la Fisica, si spalancarono due possibilità:

  • 1) La teoria dell’elettromagnetismo è falsa e bisogna trovarne una migliore, che sia compatibile con Galileo. Il principio di relatività è irrinunciabile.
  • 2) La teoria dell’elettromagnetismo è vera. Il principio di relatività può essere abbandonato.

Fu quel giovanotto di Einstein a trovare il mix perfetto tra queste due soluzioni molto drastiche, la cosiddetta terza via:

  • 3): La teoria dell’elettromagnetismo è vera. Il principio di relatività è irrinunciabile. Le trasformazioni di Galileo però non sono le trasformazioni corrette per applicare il principio di relatività.

Einstein notò che le trasformazioni di coordinate che lasciavano invariate le leggi dell’elettromagnetismo non erano quelle di Galileo, ma le trasformazioni di Lorentz:

“c” è la velocità della luce: 300.000 km/s. È evidenziato il fattore gamma.

Queste bestiole non sono altro che le trasformazioni di Galileo con un po’ di accorgimenti in più: ad esempio compare a moltiplicare il “fattore gamma: γ” che contiene il rapporto tra la velocità relativa dei due osservatori e la velocità della luce al quadrato. La velocità della luce compare per due motivi, uno storico e uno concettuale:

  • 1): Queste trasformazioni furono trovate tra quelle possibili che lasciavano invariate le leggi elettromagnetiche tra osservatori in moto a velocità costante. Siccome la luce è un’onda elettromagnetica che si propaga nel vuoto con velocità “c”, questa compare direttamente nelle trasformazioni come fattore costante per far sì che l’equazione dell’onda rimanga appunto invariata, come vuole il principio di relatività.
  • 2): Studiando le conseguenze di queste trasformazioni si scoprì che facevano una predizione insolita: la velocità della luce è un vero e proprio limite di velocità: nessuno può raggiungerla e nessuno può superarla. È una conseguenza matematica di queste trasformazioni. (Si nota già dal fatto che il fattore gammaγ” esplode se poniamo la velocità relativa “v” uguale a “c”. Non si può dividere per zero!).
    Come tutti i limiti di velocità, deve essere uguale per ogni “automobilista”: la velocità della luce è una costante che ha lo stesso valore numerico per tutti gli osservatori che si muovono di moto relativo a velocità costante. Questo è anche un fatto rigorosamente verificato sperimentalmente.

Senza soffermarci troppo sulla matematica di queste trasformazioni, osserviamo che la prima differenza importante con quelle di Galileo è il fatto che la coordinata temporale dell’osservatore in moto relativo è ottenuta mischiando coordinate temporali e spaziali dell’osservatore iniziale!

A differenza di Galileo, non è semplicemente “T=t”, ma compare prepotentemente anche lo spazio con la coordinata “x”!


Questo fatto è assolutamente inedito, e dà i natali a una interpretazione completamente rivoluzionaria del concetto di spaziotempo!

Il tempo non è più assoluto e uguale per tutti, ma è una cosa personale per ogni osservatore dell’universo, così come sono personali le proprie coordinate spaziali. L’importante poi è riuscire a tradurre da una lingua all’altra per mettersi tutti d’accordo, ma a questo ci pensano proprio le trasformazioni di Lorentz.

Il problema dell’elettromagnetismo ci ha aiutato a capire che sono in realtà le trasformazioni di Lorentz quelle corrette da introdurre quando si parla di principio di relatività. Le trasformazioni di Lorentz si riducono a quelle di Galileo nel limite in cui la velocità relativa “v” è molto inferiore alla velocità della luce “c” (cosa che ci riguarda in particolar modo, dato che nulla nel nostro mondo viaggia a velocità prossime a 300.000 km/s, eccezion fatta per la luce e alcune particelle subatomiche).

Lo spaziotempo di Minkowski

Ricordi la questione del teorema di Pitagora discussa poco fa? Le trasformazioni di Galileo vanno molto d’accordo con la geometria euclidea dello spazio. Anche le trasformazioni di Lorentz ci vanno d’accordo, ma concentrarsi solo sulla parte spaziale è riduttivo. Si trovò che esiste una nuova quantità spaziotemporale che è lasciata invariata dalle trasformazioni di Lorentz! Tenendoci sempre in dimensioni 2+1, questa quantità è la seguente:

L’intervallo spaziotemporale lasciato invariato

Cioè se prendiamo due eventi separati da una distanza spaziale e da una distanza temporale, la quantità costruita in questo modo assume lo stesso valore per tutti gli osservatori che si muovono con velocità costante:

Questo fatto ci fa capire quanto fosse poco casuale che tempo e spazio si mischiassero nelle trasformazioni di Lorentz. Tempo e spazio si mischiano per un motivo ben preciso: fanno parte di un costrutto più grande dello spazio, lo spaziotempo! In questo spaziotempo la velocità della luce gioca un ruolo così importante da comparire addirittura nella “versione estesa del teorema di Pitagora spaziotemporale”.

L’insegnamento che ne possiamo trarre è il seguente: se lo moltiplichiamo per la velocità della luce, il tempo diventa a tutti gli effetti una nuova dimensione spaziale.

Viviamo quindi in una realtà a quattro dimensioni: tre dimensioni spaziali e una dimensione temporale. A differenza di come la pensavano qualche secolo fa, la dimensione temporale è in grado di mischiarsi con le informazioni spaziali tramite le trasformazioni di Lorentz.

Il teorema di Pitagora spaziotemporale è però particolarmente speciale, perché non possiamo ignorare che il termine temporale presenta un segno negativo!

Tempo e spazio non sono trattati allo stesso modo, c’è un segno meno di differenza!

Cambia proprio il concetto di geometria: la geometria dello spaziotempo non è più euclidea! Hai mai visto un teorema di Pitagora con una differenza al posto di una somma?
È la somma dei quadrati a rendere euclidea la geometria spaziale del teorema di Pitagora.

D’altra parte la geometria dello spaziotempo si dice essere “pseudo-euclidea“. Questo nome potrà essere figo da pronunciare, ma non dice nulla di troppo rilevante per i nostri scopi.

Una cosa ben più rilevante da esplorare invece è il diagramma spaziotempo (detto “di Minkoswki“).
Ricordi i diagrammi che abbiamo studiato nel caso di spazio-tempo classici? Quello spazio-tempo era particolarmente noioso in quanto tempo e spazio non erano in alcun modo connessi reciprocamente da trasformazioni di coordinate rilevanti per la Fisica. Ora si son mischiate un po’ le carte, quindi vediamo cosa bolle in pentola.

Consideriamo di nuovo due osservatori in moto relativo l’uno rispetto all’altro con velocità costante, ed esattamente come prima rappresentiamo i loro sistemi di riferimento in un unico grafico spaziotempo.

Per fare ciò dobbiamo trovare le equazioni degli assi T e X del secondo osservatore in funzione delle coordinate del primo! Con un procedimento identico a prima troviamo le seguenti rette:

Il risultato del mixing tra coordinate spaziali e temporali cambia completamente le regole del gioco: nel caso di Galileo avevamo che solo l’asse temporale dell’osservatore appariva ruotato nello spazio-tempo dell’osservatore fermo. Ora abbiamo una rotazione di entrambi gli assi!

Un diagramma di Minkowski.
Nota che gli assi temporali sono moltiplicati per la velocità della luce.
Come suggeritoci dal “teorema di Pitagora dello spaziotempo”, la dimensione temporale deve comparire moltiplicata per la velocità della luce.

Questo fatto ha delle implicazioni senza precedenti, perché se ora andiamo a chiederci, come fatto prima, quali siano le rette di simultaneità per l’osservatore in movimento, dovremo tracciare nuovamente la parallela all’asse X:

Eventi che giacciono sulle rette di simultaneità, come si vede, sono separati da un intervallo temporale ∆t non nullo per l’altro osservatore.

Il fatto che le rette di simultaneità non siano parallele all’asse “x” del primo osservatore implica che:

Eventi simultanei per un osservatore in moto possono non essere simultanei per un altro osservatore

La simultaneità di due eventi è relativa a chi osserva gli eventi! Se io osservo due eventi A e B accadere allo stesso istante di tempo sul mio orologio, un osservatore che si muove rispetto a me potrebbe veder succedere A prima o dopo B.

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Questo fatto dipende dalla velocità della luce: la velocità della luce è una costante per tutti gli osservatori, e siccome le informazioni sugli eventi possono arrivarci al massimo alla velocità della luce (noi “vediamo” il mondo intorno a noi proprio grazie alla luce) l’unico modo in cui il moto relativo dell’osservatore riesce a non influenzare questi due fatti è proprio mettendo mano alla coordinata temporale.
Concettualmente, è come se la coordinata temporale si fosse “sacrificata” per preservare la velocità della luce.

Ricordi quegli astronauti che sincronizzavano i loro telefoni, convinti di poter definire un unico istante comune di “simultaneità” anche se distanti? Nel contesto dello spaziotempo di Minkowski ha poco senso: non esiste una retta di simultaneità degli eventi comune a tutti gli osservatori!

Se pensi che ciò sia la cosa più strabiliante di tutta questa faccenda, ti consiglio di continuare a leggere la prossima!

Dilatazione temporale

Consideriamo un evento che avviene in una singola posizione spaziale per l’osservatore in moto, e che la durata da lui registrata sia ∆T. Indicando con dei pallini il momento iniziale e il momento finale dell’evento, questi giace sulla retta degli eventi che avvengono in quella posizione, che ricordiamo, si ottiene tracciando la parallela all’asse T.

La durata ∆T dell’evento è indicata dalla striscia rossa sull’asse T. Come si vede graficamente, la durata dell’evento è indicata in rosso anche dal punto di vista dell’osservatore fermo. Secondo le trasformazioni di Galileo avremmo dovuto avere “∆T=∆t“: cioè la durata temporale dell’evento deve essere una cosa su cui è possibile concordare indipendentemente dal proprio stato di moto.

La trasformazione di Lorentz per la coordinata temporale ha tutta l’aria di promettere un po’ meno. Anzi, promette discordia tra gli osservatori a seconda del loro stato di moto.

Quanto è durato lo stesso evento secondo l’osservatore fermo? Per scoprirlo facciamo ricorso al teorema di Pitagora pseudo-euclideo, ovvero l’unica quantità su cui i due osservatori possono concordare di certo.
Consideriamo un’unica dimensione spaziale e ipotizziamo che il moto relativo si svolga sull’asse “x” del primo osservatore.
Per l’osservatore in moto l’evento avviene in un unico punto dello spazio, cioè la sua posizione non cambia, quindi si ha ∆X=0.:

Qui stiamo indicando con ∆t e ∆x la durata e la variazione in posizione dell’evento dal punto di vista dell’osservatore fermo, il quale evidentemente vedrà l’evento muoversi alla stessa velocità dell’osservatore in moto. Non ci resta che eguagliare le due espressioni per l’invarianza di Lorentz citata prima:

Abbiamo l’obbiettivo di isolare ∆t per capire quanto dura l’evento dal punto di vista dell’osservatore fermo. A tale scopo raccogliamo

Siccome l’evento in questione si sposta alla stessa velocità dell’osservatore in moto, chiamiamo proprio “v” il rapporto tra spazio percorso e l’intervallo di durata, dove “v” è proprio la velocità relativa dell’osservatore in moto. A questo punto ricaviamo ∆t dividendo tutto per quella quantità e calcolando la radice quadrata di entrambi i membri

E questa è una delle formule più famose nella storia della Fisica: la dilatazione temporale. La durata di un evento dal punto di vista di un osservatore che vede l’evento muoversi rispetto a lui è sempre maggiore della durata calcolata nel sistema di riferimento solidale a dove l’evento è avvenuto. Perché maggiore? Proprio perché ∆T, qualunque esso sia, è diviso per una quantità che è sempre minore di 1, quindi questa divisione produce un numero più grande di ∆T.

È questa forse la conseguenza più difficile da accettare sullo spaziotempo della nostra realtà, nonostante sia stata verificata sperimentalmente innumerevoli volte nell’ultimo secolo. La durata temporale degli eventi dipende dallo stato di moto dell’osservatore. Lo spaziotempo di Minkowski non è solo un’utile rappresentazione di quello che succede quando usiamo le trasformazioni di Lorentz, ma anche un’ottima intuizione su quale sia la vera natura della nostra realtà.

Ok forse questo è stato più un capitolo di un libro piuttosto che un articolo del blog, ma volevo essere davvero sicuro che ogni pezzo del puzzle del ragionamento cascasse al posto giusto. In futuro parlerò ancora di spaziotempo, quindi userò questo articolo come utile referenza per chi ne avesse bisogno.


PS. ho scritto un libro di testo che rappresenta proprio ciò che avrei desiderato leggere all’inizio dei miei studi di Fisica teorica, per renderla accessibile agli amatori e insegnare le tecniche matematiche necessarie a una sua comprensione universitaria. Si chiama “L’apprendista teorico” , dai un’occhiata per vedere di cosa si tratta. Il libro è acquistabile su Amazon.

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Matteo Parriciatu
Matteo Parriciatu

Dopo aver conseguito la laurea in Fisica nel 2020, studia Fisica Teorica all’Università di Pisa specializzandosi in simmetrie di sapore dei Neutrini, teorie oltre il Modello Standard e interessandosi di Relatività Generale.
È autore del libro “L’apprendista teorico” (2021).

Cosa impariamo da Einstein sul Problem Solving: come si affrontano gli argomenti più difficili?

Non che io sia così intelligente, semplicemente studio i problemi più a lungo

Albert Einstein

Questa citazione è una tra le più famose di Einstein e secondo me evidenzia un punto cruciale del suo modo di lavorare, che lo ha portato a rivoluzionare importanti concetti che altri fisici suoi contemporanei mettevano sotto al tappeto.

Come molti problemi che dobbiamo affrontare nel nostro percorso di studi, quelli che Einstein decise di studiare erano scomodi, fuori dalla zona comfort, non sempre ben posti.

Albert Einstein (1879-1955).

Hai presente quella spiacevole sensazione di inadeguatezza quando ci viene chiesto di risolvere un problema che apparentemente è al di sopra delle nostre capacità? Quella sensazione di avere un muro mentale che ci impedisce anche solo di iniziare a impostare il problema? Ma soprattutto, quel senso di fallimento nel soddisfare le aspettative che abbiamo di noi stessi, e di sentirsi fuori posto: “se non so risolvere questo problema, cosa ci sto a fare qui?”.

Tutte queste emozioni negative sono il pane quotidiano dei ricercatori. Infatti, per definizione, il ricercatore è colui che prova a risolvere problemi mai risolti da nessuno, e nel fare ciò finisce per sbattere continuamente contro quel muro mentale, per cercare di avanzare anche solo di uno 0.1%.

Noto che viene poco enfatizzato il fatto che i ricercatori sono comunque prima di tutto studenti. Questo è un fatto molto importante, perché non stai facendo ricerca se non ti metti a studiare cose che vanno al di là delle tue capacità. Per questo motivo il modus operandi del ricercatore dovrebbe essere preso come modello per gli studenti più giovani.

Gli anni febbrili di Einstein

Dal 1907 al 1915 Einstein lavorò incessantemente alla teoria della Relatività Generale, andando a sbattere la testa contro difficoltà teoriche e matematiche che all’epoca rappresentavano l’apice della Fisica Teorica.

In questo processo Einstein dovette imparare quasi da zero il linguaggio matematico più adatto per formulare le sue idee (la geometria di Riemann e il formalismo di Minkowski per lo spaziotempo), e l’impresa si dimostrò così eccezionale che dovette collaborare continuamente con due amici matematici, Marcel Grossmann e Michele Besso.

Le difficoltà però non erano solo matematiche. Einstein cambiò più di qualche volta le principali strutture concettuali con cui desiderava conciliare la gravità di Newton con la sua relatività ristretta, e fino all’ultimo momento non fu mai esattamente convinto di quali fossero i reali fondamenti teorici.

Per chi mastica un po’ di inglese consiglio il magistrale lavoro dello storico Michel Janssen “No success like failure: Einstein’s quest for General Relativity, 1907-1920“, il quale ha saputo rintracciare tutto il percorso concettuale di quegli anni.

Nelle pagine di Janssen non c’è la moderna figura mitologica dell’Einstein “tutto d’un pezzo”, al quale bastò immaginarsi “una persona in caduta libera” per formulare la nuova teoria della gravitazione. Invece viene fuori l’Einstein ricercatore, pieno di dubbi e ripensamenti, ma che faceva di queste tre qualità principali le sue armi di battaglia:

  • Lungimiranza. Einstein era di sicuro un visionario perché era capace di sintetizzare tutte le difficoltà teoriche in pochissimi punti cardine: se doveva esistere una teoria della gravità compatibile con la relatività, allora doveva rispettare un principio di covarianza delle leggi della fisica sotto qualsiasi trasformazione di coordinate. La visione di Einstein era ben delineata: credeva ciecamente nel principio di Galileo e sapeva che in un modo o nell’altro la teoria corretta doveva racchiuderlo in una nuova veste.
  • Umiltà intellettuale. La storia è cosparsa di ricercatori che hanno dedicato gran parte della loro carriera a teorie che si dimostravano fallaci e inconcludenti. Il loro principale nemico era il proprio ego, che non gli permetteva di ammettere di essere stati nel torto tutto il tempo.
    Al contrario, Einstein era capace anche di pubblicare un articolo al mese in cui nel successivo smontava la maggior parte delle cose dette nel precedente. Continuò a ripetere questo processo di “avanzamento-smentita” per almeno 3 anni, dal 1913 al 1915.
  • Perseveranza. Einstein era un lavoratore incallito, disposto a dedicare tutto il tempo che riteneva necessario per la risoluzione di un problema. Laddove i suoi colleghi mollavano, lui continuava. Aveva capito che la mente è in grado di fare avanzamenti importanti solo quando le si dà tempo sufficiente.
La famosa foto della scrivania di Einstein nel suo ufficio a Princeton.

Gli ultimi anni di gestazione della Relatività Generale furono intensissimi, specialmente l’ultimo anno in cui Einstein si ritrovò a rivaleggiare con nientemeno che David Hilbert (il più grande matematico del suo tempo), il quale aveva fiutato la possibilità di trovare le equazioni corrette prima di Einstein. Proprio a questo punto (inverno del 1915) il lavoro di Einstein divenne febbrile: si lasciò assorbire completamente dal proprio obbiettivo, dimenticandosi persino di scrivere agli amici. Oggi il suo stato mentale sarebbe probabilmente classificato in psicologia come “flusso”.

Spesso sono così assorbito dal lavoro che mi dimentico di pranzare.

Albert Einstein in una lettera a suo figlio Hans, 1915.

Lo stato mentale di “flusso” è comune a tantissimi artisti, ed è spesso descritto come uno degli stati di coscienza più sereni dell’esistenza, in quanto il cervello ha piena libertà espressiva e lavora all’unisono con emozioni e corpo.

In ogni caso, ciò che condusse Einstein a risolvere il problema più difficile della sua carriera fu un mix di qualità da cui tutti possiamo trarre ispirazione per migliorare il nostro problem solving in generale.

In fondo, i principali nemici di Einstein erano quelli che accomunano tutti i noi: dubbio, insicurezza, ripensamento, il non sentirsi all’altezza. Queste sanguisughe emotive tolgono energia preziosa che invece occorrerebbe investire nel cercare di risolvere il problema in sé.

Come vanno approcciati gli argomenti più rognosi

La mente è capace di produrre i più grandi successi, ma anche di condizionare i più grandi fallimenti. Dipende tutto da come la si usa, e forse la nostra società dedica troppo poco tempo all’educazione sul suo corretto utilizzo.
Come sosteneva David J. Schwartz, professore alla Georgia State University, davanti a un problema molto rognoso le persone solitamente scelgono di investire le energie mentali in uno tra due modi:

  • Distruttivo. La maggior parte delle energie mentali vengono spese per ricercare tutte le buone ragioni per cui non siamo in grado di risolvere il problema che ci è stato posto di fronte.
  • Creativo. La maggior parte delle energie mentali vengono spese cercando di capire come possiamo fare anche solamente un piccolo avanzamento verso la soluzione.

Questo è ciò che ho imparato anche nella mia esperienza universitaria. È capitato spesso agli esami che tra due persone ugualmente preparate solo la più intraprendente delle due riuscisse a strappare un voto più alto, tentando di rispondere alla “domanda bonus” dell’esame. Questo perché, a differenza del collega, riusciva a investire le proprie energie mentali concentrandosi solo sul problema, senza ascoltare le sanguisughe emotive. Mentre uno dei due cercava la soluzione, l’altro cercava delle scuse per autoconvincersi di non essere in grado.

Una pagina degli appunti di Einstein sulla sua teoria della gravitazione.

Io stesso mi sono accorto di aver fatto questo errore specialmente il primo anno di università.
Nel momento in cui mi sono accorto di questo cattivo approccio mentale ho cercato di non ripeterlo più, e i risultati sono arrivati subito.

In generale nel momento in cui dobbiamo studiare qualsiasi argomento particolarmente rognoso, mal posto o semplicemente noioso, l’approccio corretto è quello creativo: bisogna cercare di trovare la volontà di concentrarsi solo sull’argomento, aprendo una bolla intellettuale in cui eliminiamo tutte le interferenze della nostra vita. Occorre mettere via smartphone e social media ed entrare dentro la materia.

Ho notato che il modo più rapido che ho di farmi piacere qualcosa è leggere ciò che ha entusiasmato altre persone di quell’argomento. Spesso non ci piace qualcosa solo perché ne sappiamo troppo poco, o perché chi ce l’ha presentata non è riuscito a trasmetterci il motivo per cui dovremmo studiarla. Internet è un posto fantastico proprio per questo motivo: con pochi click puoi avere accesse alla vita e alle opinioni di migliaia di persone che hanno studiato la nostra stessa cosa.

Sii come Einstein, immergiti dentro al tuo lavoro. Solo dopo esserti immerso saprai se quell’argomento ti piace o meno. Se stai risolvendo un problema: cerca soluzioni, non scuse. Se proprio non trovi nessun indizio per riuscire a risolverlo: informati su come le persone hanno risolto problemi simili, e magari torna sul libro per approfondire il capitolo riguardante quel problema. L’approccio attivo batte sempre l’approccio passivo.

Un’altra cosa che ha funzionato nel mio caso quando mi sono confrontato con argomenti piuttosto noiosi o problemi apparentemente insormontabili è quella di “renderli memorabili”. Mi convincevo che quello che stavo facendo era davvero importante, e davo un tono solenne alla mia impostazione del problema, fingendomi un ricercatore. Spesso sono arrivato anche a scrivere degli articoli in PDF in cui proponevo la mia soluzione: l’atto di scrivere quei PDF mi motivava a concentrarmi solennemente sul problema. Questo piccolo accorgimento riusciva a fregare il cervello, spazzare via quell’apatia che crea il mindset distruttivo per lasciare spazio alla creatività.
Anche quando stai risolvendo esercizi apparentemente banali o che i tuoi colleghi ritengono semplici (triviali), continua comunque a darti quell’aria solenne per motivarti ad andare avanti. Prima o poi gli altri si lasceranno ingoiare dall’apatia e presto smetteranno di confrontarsi con i problemi più complessi.

Se ti interessa la Fisica, iscriviti alla newsletter mensile! Ho pensato di scrivere una guida-concettuale di orientamento per aiutarti a capire da dove studiare.

Infine, un’ultima nota sul concetto di “esaurimento”, o come va di moda dire oggi “burnout“.

Risolvere problemi o studiare materie molto complesse porta via tanta energia. Nonostante ci siano comunque tanti modi di ottimizzare l’energia giornaliera, ad esempio eliminando le distrazioni, pianificando le cose da fare, ed eliminando la mentalità distruttiva (cioè non sprecare energia mentale per trovare scuse o motivi per cui fallirai in ciò che stai per fare), in ogni caso è facile arrivare a un punto in cui si è semplicemente esaurita tutta l’energia.

Cosa possiamo fare quando ci sentiamo completamente esausti riguardo lo studio, nonostante ci siamo riposati e ricaricati in altri modi? Mi è rimasto impresso il suggerimento del monaco benedettino David Steindl-Rast, secondo il quale:
il rimedio all’esaurimento non è smettere di fare ciò che stiamo facendo, ma iniziare a farlo mettendoci tutto ciò che abbiamo, anima e corpo, il 100% della nostra dedizione e concentrazione.

Secondo Steindl-Rast, l’energia che cercavamo era già dentro di noi, soppressa dal fatto che non stavamo lavorando al 100% della nostra concentrazione, ma magari al 60-70%. Quante volte ci siamo dedicati a un argomento, o a un problema, avendo però la testa rivolta verso altri argomenti o altri problemi? O magari avendo la testa occupata dalle sanguisughe emotive? Questo multitasking mentale comporta un consumo energetico molto più elevato del “dedicarsi al 100%”.

Sii come Einstein, dedicati a un argomento o un problema alla volta, organizzandoti il tempo. Pensa in grande e solennemente, non togliere importanza al lavoro che fai. Solo questo è in grado di scacciare l’apatia e le sanguisughe emotive che ti trattengono dall’imparare cose nuove o dal risolvere i problemi più complessi.


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