Il bosone di Rubbia ha una massa leggermente diversa: cedimento del Modello Standard?

Dopo decenni di stagnazione, il Modello Standard mostra i primi segni di cedimento?

È di ieri (7 aprile) la notizia pubblicata su Science: è stata trovata una differenza tra predizione teorica e misura sperimentale per la massa del bosone W. Una differenza piccola (0.09%) ma superiore ai margini di errore (0.01%) e quindi assolutamente degna di nota.

Il bosone W è proprio il famoso bosone scoperto dal team di Carlo Rubbia nell’ormai lontano 1983 (scoperta che valse il premio Nobel al fisico italiano).

Dopo vari decenni dalla sua scoperta, il bosone W può dare indicazioni di Fisica oltre il Modello Standard, ed è facile immaginare l’entusiasmo nella comunità dei Fisici del Fermilab, dove è avvenuta la scoperta:

La misura è estremamente eccitante e davvero un risultato monumentale nel nostro campo.

Florencia Canelli, fisica sperimentale dell’Università di Zurigo

Ci sono però quelli che domandano un po’ di cautela:

Userei cautela nell’interpretare questo risultato come il segno di nuova Fisica oltre il Modello Standard. I fisici dovrebbero concentrarsi sul capire come mai questo valore differisce da altri risultati anche recenti.

Matthias Schott, fisico dell’Università di Gutenberg

Perché ce ne siamo accorti solo ora?

La risposta è particolarmente semplice: siamo diventati più bravi nell’analisi dei dati. Il team di ricerca è stato capace, grazie a nuove tecniche, di manipolare un campione statistico di 4 milioni di bosoni W prodotti all’interno del detector, tra il 2002 e il 2011. Questi bosoni sono decaduti producendo degli elettroni, dei quali è stata misurata l’energia osservando la loro traiettoria in un campo magnetico.
A differenza del passato, è stato possibile misurare molto meglio la traiettoria degli elettroni, migliorando quindi la precisione di quanta energia si sono portati via.

La misura dell’energia degli elettroni permette di ricondursi alla massa del bosone W (il cui decadimento ha concesso agli elettroni di avere questa energia in primo luogo).

Perché il bosone W è importante?

Ad oggi conosciamo quattro forze fondamentali della Natura, meglio note come interazioni fondamentali.
Il modo in cui studiamo queste interazioni su basa sull’analisi di alcuni processi che coinvolgono le particelle. Tali processi possono essere studiati a differenti scale di energia in cui vengono rappresentati con diverse schematizzazioni, le quali ci danno un’idea di quello che sta succedendo.

Da questi schemi teorici emerge che un’interazione tra particelle deve essere mediata da una particella speciale chiamata bosone.
Il modo più diretto per avere l’identikit di questa particella è conoscere la sua massa.

Prima di ricavare una stima di queste masse, facciamo il punto della situazione sulle interazioni fondamentali in gioco:

  • Gravità: interazione tra tutti i corpi con massa. In una teoria di gravità quantistica (ancora solo ipotizzata a stento) deve essere mediata da un bosone chiamato gravitone.
  • Elettromagnetismo: interazione tra tutti i corpi con carica elettrica. Mediata da un bosone chiamato fotone.
  • Forza forte: interazione che tiene assieme i nuclei degli atomi. Ad alte energie si manifesta come un’interazione mediata dai gluoni dei quark, a basse energie ha invece come mediatore il bosone pione.
  • Forza debole: interazione che permette i decadimenti di alcuni nuclei. Mediata da tre bosoni, chiamati W+,W- e Z.

La prima distinzione interessante tra queste quattro forze è il loro raggio di interazione. Sono infatti tutte forze che agiscono a distanza, e due tra queste, cioè gravità ed elettromagnetismo, hanno un raggio di interazione infinito. Ciò significa che la forza gravitazionale tra due masse agli antipodi dell’universo è sempre teoricamente diversa da zero. Nella realtà, ovviamente, tale valore è così piccolo da poter essere considerato irrilevante per lo stato di moto delle due masse. Lo stesso discorso si applica all’elettromagnetismo. Questo raggio di interazione si dice asintoticamente infinito nel senso che la forza può essere considerata “matematicamente” nulla solo all’infinito (cioè un punto irraggiungibile).

Le altre due forze, quella nucleare forte e quella debole, hanno invece a che fare con il mondo dell’infinitamente piccolo, cioè i nuclei degli atomi.
La scala di distanza nucleare è completamente fuori dagli schemi della quotidianità: parliamo di qualche milionesimo di miliardesimo di metro. Questo numero è così difficile da scrivere e pensare che è stata creata direttamente una nuova unità di misura: il fermi (in onore di Enrico Fermi).

Come informazione di orientamento, diremo che il raggio di un nucleo è del valore di qualche fermi.

Siccome l’interazione forte si occupa di tenere assieme i nuclei, composti da tanti protoni e neutroni (protoni che altrimenti si respingerebbero per via dell’interazione elettromagnetica), il suo raggio di interazione è proprio dell’ordine di qualche fermi. L’interazione debole è ancora più a corto raggio, perché agisce su una scala che è un millesimo di quella nucleare.

In che modo vengono interpretati questi differenti raggi di azione delle forze fondamentali dalla fisica teorica?

Livello intuitivo: il diagramma di bassa energia

Un’interazione in un certo intervallo di bassa energia può essere schematizzata da un diagramma tipo questo

Nel quale viene riportato un processo di repulsione elettromagnetica tra due elettroni. Matematicamente questa repulsione viene comunicata da un fotone virtuale “γ” che viene creato con una certa energia per un certo intervallo di tempo. L’informazione elettromagnetica si propaga tra due punti dello spaziotempo diversi e non può essere istantanea (per non contraddire la relatività ristretta), ma può propagarsi, al massimo, alla velocità della luce.

Con poche differenze, i diagrammi delle altre interazioni alle basse energie hanno una struttura molto simile (fatta eccezione per la gravità, per la quale non esiste ancora una teoria quantistica soddisfacente). Ciascun diagramma è caratterizzato dal proprio personalissimo bosone di interazione, che sia il fotone (elettromagnetismo), il pione (forze nucleari forti), o i W e Z (interazione debole).

Lo scambio di un oggetto tra due persone su due barche genera un allontanamento per via della conservazione della quantità di moto totale.

Esiste un esempio intuitivo, seppur da prendere con le pinze perché serve solo a darci un’intuizione fisica, del perché lo scambio di un mediatore produca una forza di interazione. L’esempio viene dalla fisica classica ed è illustrato in figura.

Il principio di Heisenberg in una forma speciale

Vogliamo studiare in maniera intuitiva quali siano le grandezze in gioco nella propagazione dei bosoni mediatori. Sappiamo dalla fisica teorica che possiamo interpretarli come particelle create e riassorbite durante l’interazione, e che esistono per un certo intervallo di tempo che consente la loro propagazione.

“Aspetta, mi stai dicendo che viene creata una particella dal niente? Ma questo non viola il principio di conservazione dell'energia?"

Una forma molto speciale del principio di indeterminazione di Heisenberg riguarda proprio l’energia e il tempo. Una particella può essere creata con una certa energia per un certo intervallo di tempo, senza violare il principio di conservazione, a patto però che valga

Il simbolo “~” indica un’uguaglianza approssimata. A destra, la costante di Planck divisa per 2π.

Per la creazione di un bosone mediatore di massa “m” richiediamo che questi esista per un tempo sufficiente per propagarsi di una distanza “R” (che è proprio il raggio di azione dell’interazione) a una velocità che è dello stesso ordine (ma MAI uguale) a quella della luce “c“. In sintesi:

Il simbolo “~” sta proprio a indicare che la relazione vale solo come ordine di grandezza: non stiamo dicendo in nessun modo che un corpo di massa “m” possa viaggiare alla velocità della luce, ma solo a una velocità comparabile e ad essa inferiore.

Un gioco poco rigoroso, che ci azzecca molto bene

Sfruttando una possibile interpretazione dei diagrammi sulle interazioni, immaginiamo che i bosoni mediatori vengano creati nei processi e che si propaghino per una distanza “R” che è proprio il raggio di azione.

Come facciamo a capire se tali bosoni esistano davvero o se siano solo costrutti teorici?
Dobbiamo rivelarli sperimentalmente, ma per rivelarli sperimentalmente dobbiamo prima sapere che tipo di massa possiamo aspettarci per queste particelle.

Un giochino poco rigoroso è quello di usare il principio di Heisenberg esposto sopra, perché a quel punto l’energia di massa dei bosoni si ottiene dividendo per “∆t

L’energia di massa dei bosoni in funzione del raggio di interazione

Applichiamo ora questa formula ai bosoni delle interazioni: fotone, gravitone, pione e bosoni W,Z.

  • Fotone: l’interazione elettromagnetica ha un raggio di azione infinito. Se diamo a “R” un valore molto grande nella formula troviamo che la massa tende a zero. I fotoni, come si sa comunemente, hanno massa nulla, e quindi sono capaci di viaggiare alla massima velocità dell’universo, cioè la velocità della luce. Non una grandissima notizia, dato che i fotoni sono proprio la luce stessa.
  • Gravitone: l’interazione gravitazionale è sorella (molto più debole a parità di distanza) della forza elettromagnetica, e ha anche lei un raggio di azione infinito. Troviamo quindi una massa nulla anche per il fantomatico bosone dell’interazione gravitazionale: se mai troveremo una teoria quantistica della gravità, il suo bosone si propagherà alla velocità della luce.

Per discutere del pione (mediatore della forza nucleare forte a bassa energia) e dei bosoni della forza debole, diamo prima una formula numerica utile

Con “fm” intendiamo “fermi”, cioè l’unità di misura delle lunghezze nucleari.
Se ti interessa la Fisica, iscriviti alla newsletter mensile! Ho pensato di scrivere una guida-concettuale di orientamento per aiutarti a capire da dove studiare.

L’energia delle particelle atomiche si misura infatti con una scala energetica chiamata MeV.
Come per tutte le unità di misura, fatti bastare solo qualche numero di orientamento: l’energia di massa dei neutroni e dei protoni è di circa 1000 MeV, mentre l’elettrone “pesa” solo 0.5 MeV. Le energie dei legami nucleari sono invece dell’ordine di qualche MeV.

Per quanto riguarda il bosone W dell’interazione debole, per la quale il raggio di azione è dell’ordine di 0.0025 fermi

Questo era il valore appunto trovato nel 1983! Per la precisione parliamo di 80,379 migliaia di MeV. Oggi questo valore è in discordanza dello 0.09% con quello misurato al Fermilab.

Se il risultato verrà confermato da ulteriori esperimenti, siamo davanti al primo reale superamento del Modello Standard.

È un arrivo una nuova stagione eccitante per i fisici teorici?


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La Matematica di come diventiamo bravi in qualcosa

Spesso mi viene chiesto se la Fisica possa essere imparata da tutti, e quasi sempre ho la stessa difficoltà nel formulare una risposta.

Ovviamente mi viene da dire “Certo che sì, non c’è nulla di speciale, basta applicarsi con costanza“, ma dentro di me so che la parola cruciale è “costanza“: come per tutte le discipline la differenza sta nel reale interesse. Tutti possiamo imparare tutto, il punto è che tutti (com’è naturale) prima o poi scegliamo solo una tra le tante possibilità. La vita è una sola e quindi sarebbe poco pratico investire energie in più interessi.

La formulazione più corretta della mia risposta sarebbe quindi “Basta avere l’interesse, dopodiché bisogna riporre fiducia nella costanza della pratica”. Qui molti storcono il naso: “Devi esserci nato con la passione per la Fisica, non è per tutti, è roba poco accessibile”.

Quello della passione è in realtà un falso mito, e il discorso può essere applicato non solo alla Fisica, ma a tutte le discipline e tutti gli hobby che cerchiamo di imparare: sono infatti convinto che per diventare bravi in qualcosa bastino due ingredienti:

  • L’interesse.
  • La fiducia nella costanza.

L’autosabotaggio del cervello

Capita a tutti di avere, in qualcosa di specifico, abbastanza interesse da volerne sapere di più e imparare. Non sempre riusciamo a trovare la motivazione per dedicarci a questo interesse, semplicemente perché il cervello si lascia spaventare dalla mole necessaria di lavoro.
In sostanza ho imparato che in questi casi il cervello individua due macro-stati di esistenza:

  • 1) Ciò che so ora
  • 2) Ciò che saprò quando avrò “finito” di imparare

questa suddivisione innaturale elimina tutto quello che sta in mezzo, e cioè il processo stesso dell’imparare.
Il cervello si spaventa perché “imparare a fare quella cosa” diventa all’improvviso una montagna da scalare e non un semplice sentiero da percorrere in leggera pendenza. Diversamente, l’arte dell’apprendimento segue la stessa filosofia degli scalatori: guarda il sentiero, non la cima della montagna!

Inoltre la suddivisione elimina un prerequisito fondamentale dell’animo dello studente: non c’è mai fine all’apprendimento, e “imparare a fare qualcosa” non è un obbiettivo, ma un percorso, uno stato dell’esistenza.

Ho letto in giro che il primo passo per imparare qualcosa è togliere pressione da se stessi.
Bisogna cioè trasformare il nostro modo di formulare gli obbiettivi: passare da questa affermazione: “imparerò a suonare la chitarra” a quest’altra: “dedicherò qualche ora alla chitarra, perché mi piace”.
Questa trasformazione fa la differenza perché toglie tanta pressione al cervello.
Rimane però la questione annosa a cui siamo ben familiari: ma quanta fatica devo fare prima di vedere progressi in ciò che imparo?

Perché non faccio progressi?

Chiaro che non si possa ignorare il fatto che ci piace praticare solo ciò che ci dà un minimo di soddisfazione. Come si fa a “guardare solo il percorso” se non si vedono progressi immediati? È chiaro che si arrivi a credere di non essere portati se si osserva solo una minima percentuale di miglioramento.
Siamo campioni del mollare appena le cose non procedono come ci aspettiamo.

Il punto è che bisogna “imparare anche come impariamo”.

Ho preso ispirazione da un articolo di James Clear, in cui si evidenziava come le nostre aspettative sull’apprendimento siano completamente irrealistiche. Provo a riformulare il ragionamento nello stile che preferisco io. Iniziamo con un’affermazione su cui penso si possa concordare facilmente:

Ogni volta che facciamo pratica, miglioriamo dell’1% rispetto a prima.

Questa dell’1% è la nostra assunzione fondamentale su un modello dell’apprendimento molto semplificativo, non per forza realistico, ma che rende l’idea degli ordini di grandezza (è il modus operandi dei fisici).

Il punto è che è proprio quel 1% che ci scoraggia: ai nostri occhi è troppo poco!

Immaginiamo però di fare pratica “n“-volte su qualcosa che vogliamo imparare, e indichiamo con “Bi” la nostra bravura al tentativo “i“-esimo. All’inizio siamo completamente ignoranti perché abbiamo fatto zero tentativi, quindi la nostra bravura sarà indicata con “B0“. Dopo un tentativo, siamo migliorati solo dell’1% rispetto a prima. In formule ciò significa che la nostra bravura “B1” dopo il “tentativo 1″ sarà

Dopo 1 tentativo saremo l’1% più bravi di prima

Ora la nostra bravura è “B1“, per cui la prossima volta che faremo pratica miglioreremo ancora dell’1%, ma stavolta la nostra base di partenza è “B1” quindi al tentativo “2″ la nostra bravura “B2” sarà

Dopo 2 tentativi saremo l’1% più bravi di prima, ma ora non stiamo partendo da zero!

Detta così non sembra chissà cosa, ma ricordiamoci da dove siamo partiti: bisogna confrontarsi con la propria bravura di partenza “B0” inserendo l’espressione di “B1” nell’equazione precedente:

Al secondo tentativo siamo più bravi di un fattore (1.01)2=1.0201

Al secondo tentativo saremo un fattore (1.01)2=1.0201 più bravi del nostro stato iniziale, cioè un miglioramento del 2.01%.
D’altronde che ci aspettavamo? Se migliori dell’1% a ogni tentativo, è chiaro che dopo due tentativi sarai migliorato del 2%! Invece è proprio qui che la matematica degli esponenziali prende il sopravvento: nota che non siamo migliorati del 2%, ma del 2.01%, quel 0.1% in più fa tutta la differenza del mondo.

Magia esponenziale

Applicando “x“-volte lo stesso ragionamento, dopo “x“-tentativi saremo più bravi di un fattore:

Ad esempio al decimo tentativo non saremo migliorati del 10%, ma un po’ di più, perché (1.01)10 rappresenta invece un miglioramento del 10.46%. Sembra ancora molto poco, eppure le cifre decimali stanno crescendo abbastanza in fretta grazie al modello esponenziale.
Tuttavia il nostro cervello penserà di aver capito la matematica: “sì va bene, la nostra bravura crescerà, ma crescerà sempre molto poco, è intuitivo”. Il cervello ha un modo di ragionare lineare: “se sono migliorato di poco le prime volte, allora migliorerò di poco anche tutte le volte successive!”. In questo ragionamento si trascura però un punto fondamentale: ogni volta che facciamo un nuovo tentativo non stiamo più partendo da zero, ma stiamo accumulando esperienza dai tentativi precedenti. Il cervello non è bravo a capire questo dettaglio.
Per questo motivo ci immaginiamo che il grafico del progresso sia una retta y=mx:

Quello che ci immaginiamo quando stiamo imparando qualcosa di nuovo: il nostro cervello ragiona in maniera lineare.

Quindi il cervello si immagina che la differenza tra i nostri stati di bravura finale e iniziale stia in proporzionalità diretta con il numero di tentativi “x“, cioè “Bx-B0=0.01x”, (dove 0.01 è il miglioramento del 1%) che ha il seguente grafico:

Il grafico “mentale” che ci suggerisce di smettere di imparare: meglio lasciar stare, non si migliorerà mai.

Il punto cruciale è che questo grafico non è un modello sufficientemente realistico dell’apprendimento: ogni volta che impari un po’ di più, non stai partendo da capo! Un modello più realistico che tiene conto di ciò è invece quello esponenziale che abbiamo visto sopra, anche se è difficile accorgersi della differenza almeno all’inizio. Ciò è evidenziato nel seguente grafico in cui confronto i due modelli di crescita (esponenziale e lineare) fino a un numero 70 di tentativi:

I due andamenti (quello mentale e quello reale) sono quasi indistinguibili nei primi 70 tentativi. Il nostro cervello è bravo ad approssimare la realtà, ma qualcosa succede dopo il numero 70…

Anche se teniamo in conto di “non partire sempre da zero” e usiamo il modello di crescita esponenziale, i progressi che facciamo sono abbastanza trascurabili, almeno fino al tentativo 70, dopodiché entra in gioco la magia dell’esponenziale! Il grafico in rosso inizia a crescere leggermente di più del grafico in blu. Se aumentiamo ancora il numero di tentativi, arriviamo a questo risultato spettacolare:

Dopo tantissimi tentativi, i miglioramenti rispetto al nostro stato iniziale schizzano alle stelle. L’andamento è esattamente analogo a quello dell’interesse composto.

Riflettiamo un attimo davanti a questo grafico: noi tutti siamo soliti mollare la pratica ben prima del settantesimo tentativo, proprio perché osserviamo pochissimi progressi rispetto al nostro stato iniziale. Spesso ci sembra anzi di fare passi indietro, vuoi per via della scarsa memoria, vuoi perché semplicemente abbiamo capito male qualcosa che pensavamo di aver capito. Il punto è che i miglioramenti arrivano solo dopo centinaia e centinaia di tentativi: ad esempio dopo aver praticato qualcosa 300 volte, migliorando dell’1% ogni volta, arriviamo a diventare più bravi circa del 1878%!

Ne deduciamo che in molte cose della vita non è solo il talento innato che ci permette di fare progressi.
Ovviamente se uno ha un talento innato non migliorerà dell’1% ogni volta, ma magari del 3%. Poco importa, vorrà dire che per diventare eccellente farà 200-300 tentativi in meno di noi, il punto è che compararsi con gli altri ha poco valore nel momento in cui ci concentriamo nel percorso dello scalatore: il fine non è imparare “la cosa” in particolare, ma godersi il sentiero.

In verde: una persona che migliora del 3% ogni tentativo. In rosso: una persona che migliora del 1% ogni tentativo.
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Questo discorso mi ha portato a ragionare su un aspetto importante: nella vita possiamo potenzialmente scegliere qualunque lavoro vogliamo, indipendentemente dai nostri talenti (a meno che quel lavoro non ci faccia proprio ribrezzo). Il punto sta nel capire quanti tentativi siamo disposti a fare prima di raggiungere un livello che pensiamo possa essere redditizio.
La volontà, dopo un lungo cammino, ci porta dovunque. Il talento ci porta dovunque, in aereo.

Per quanto riguarda ciò di cui mi occupo io, mi verrebbe da dare proprio questa risposta:
“Ok, ti piace la Fisica e vorresti impararla come hobby, ma quanti tentativi saresti disposto a fare? Pensi che se non migliorerai subito entro qualche mese sarà il caso di mollare? Pensi che sia necessario passare notte e giorno sui libri per tutto il resto della tua vita per vedere un miglioramento del 30%?”

Siamo ossessionati dal successo immediato, quindi l’idea di studiare una materia complicata si trasforma subito in una questione di vita o di morte: “Non ho il talento, per capirci qualcosa dovrei dedicarci il 90% della mia giornata!”, la mia risposta invece è “Non è umanamente possibile pretendere di dedicare a un hobby una percentuale così grossa dell’esistenza quotidiana, ma è certamente possibile migliorare di una percentuale insignificante, tipo l’1%, ogni mese per tutto il resto della propria vita”.
L’elefante si mangia a pezzetti.


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No, le equazioni di Maxwell non furono capite subito

Se consideriamo i più importanti avanzamenti scientifici del XIX secolo, la teoria elettromagnetica di James Clerk Maxwell è seconda solo al lavoro di Darwin “l’origine delle specie”.

Tuttavia questa importanza non fu riconosciuta subito, e non parlo di qualche anno. Rimasi sorpreso quando scoprii che ci vollero circa 30 anni affinché le equazioni di Maxwell fossero capite a pieno, e che addirittura per i primi 20 anni furono praticamente ignorate.
Dopo un po’ di ricerche, ho individuato due motivi principali per spiegare ciò:

James Clerk Maxwell (1831-1879)
  • Il carico concettuale della teoria di Maxwell.
  • La modestia di Maxwell.

Il tangibile e l’intangibile

La teoria di Maxwell, pubblicata per la prima volta nel 1865, risulta ancora oggi un po’ indigesta per la maggior parte dei neofiti, figuriamoci per i fisici del 1800!
Immaginiamo il contesto culturale di questi fisici: l’universo newtoniano era composto da oggetti tangibili, in grado di interagire “a distanza” l’uno con l’altro in maniera misteriosa. Nonostante l’azione a distanza, le quantità misurabili erano tangibili, e questo era quello che contava!
Prima Faraday e poi Maxwell introdussero il giochino astratto dei “campi” intangibili che si estendono nello spazio e producono perturbazioni locali nel moto dei corpi. Per i fisici dell’epoca si trattava giusto di un giochino, un utensile fantasioso per schematizzare un meccanismo che funzionava bene anche senza.

Un disegno originale di Maxwell sulle linee di forza e le superfici equipotenziali.

Infatti i fisici classici ragionavano in termini meccanicistici perché erano figli del loro tempo, a cavallo tra la prima e la seconda rivoluzione industriale. Per loro i “campi” erano la manifestazione di strutture meccaniche composte da una moltitudine di piccoli vortici in grado di trasmettere gli stress meccanici tra cariche e correnti.

Maxwell era un visionario, ma pur sempre un fisico del 1800, per cui i campi da esso descritti avevano come fine ultimo quello di inserirsi nel contesto della teoria dei vortici. Il risultato era di una difficoltà paurosa e fu un po’ come darsi la zappa sui piedi.

Questo fu uno dei principali freni alla comprensione della teoria: per i suoi contemporanei era dannatamente complicata, difficile da visualizzare e senza nessun vantaggio rispetto al framework newtoniano.

Nel framework newtoniano il campo elettrico e il campo magnetico venivano descritti come due entità ben distinte, e la loro azione sui corpi veniva descritta con le leggi empiriche di Faraday, Lenz e Gauss, usando il concetto misterioso di forza a distanza.

Maxwell invece fece uno dei più grandi passi avanti nella Storia del Pensiero: l’interazione si propagava alla velocità della luce attraverso un certo mezzo (l’etere) sotto forma di onda elettromagnetica, e cioè di una nuova entità fisica che vede campo elettrico e campo magnetico come due facce della stessa medaglia.

Nessuno era pronto per capire la portata di questa grande unificazione. Nessuno l’aveva richiesta, e nessuno era volenteroso di imparare la matematica necessaria.

Infatti un altro problema fu che Maxwell non scrisse le sue equazioni nella forma elegante che conosciamo oggi (grazie al lavoro di Heaviside)

Sinistra: le equazioni di Maxwell originali. Destra: le equazioni di Maxwell in notazione di Heaviside.

bensì scrisse delle equazioni vettoriali componente per componente, per un totale di 20 equazioni, e con una notazione un po’ buffa. Pensa che disastro dover fare una peer review di un lavoro simile!

Quando la modestia è controproducente

È riportato che durante una conferenza Maxwell riservò alla sua teoria elettromagnetica giusto una breve menzione:

“[…] Un’altra teoria dell’elettricità che io preferisco rinnega l’azione a distanza e attribuisce l’azione elettrica alle tensioni e pressioni di un mezzo che pervade l’universo. Queste tensioni sono dello stesso tipo di quelle familiari agli ingegneri, e il mezzo è lo stesso in cui si pensa che avvenga la propagazione della luce.”

James Clerk Maxwell

Tutto qui? Tutto qui. Quando Newton scoprì le leggi della gravitazione le annunciò al mondo con un sonoro “Ora dimostrerò la struttura del sistema del Mondo”, mentre Maxwell si limita a citare il proprio lavoro con la frase “un’altra teoria che io preferisco…”


La sua modestia spinse i fisici dell’epoca a non prendere sul serio la teoria, ritardandone la comprensione per almeno 20 anni, fino ai lavori di Hertz, Lorentz e Einstein, i quali crebbero già in un contesto più amichevole al concetto di campo, per cui ai loro occhi sembrava quasi ovvio che il mondo dovesse parlare il linguaggio della teoria di Maxwell.

La transizione concettuale

La teoria di Maxwell diventa semplice e intellegibile solo quando si esegue una transizione concettuale: gli oggetti primari non sono più i modelli meccanici: le forze sono solo un ingrediente secondario, il campo elettromagnetico è l’ingrediente primario!

Ciò che è misurabile non è direttamente il campo elettromagnetico, ma una sua particolare espressione matematica: ad esempio il modulo quadro del campo rappresenta la sua energia, che è una quantità misurabile. Le quantità misurabili, a differenza della teoria di Newton, diventano una manifestazione secondaria di ciò che si nasconde dietro, il quale è molto più profondo.

Questo innovativo modo di pensare è stato replicato per tutto il XX secolo: oggi abbiamo ridotto all’osso le equazioni di Maxwell, capendole dal punto di vista della relatività di Einstein. Dalle 20 equazioni originali, passando per le 4 equazioni di Heaviside, arriviamo alla forma elegantissima di oggi, la quale le condensa tutte in due righe:

Le equazioni di Maxwell nell’elettrodinamica relativistica.

Questo è stato fatto grazie a un altro salto concettuale: il potenziale vettore del campo elettromagnetico, un tempo considerato solo come uno strumento astratto, si è rivelato come l’unico modo per trasportare l’elettromagnetismo nel reame della teoria classica dei campi. Questa necessità ha spalancato le porte alla formulazione dell’elettrodinamica quantistica e di tutta l’infrastruttura delle teorie di gauge moderne.


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Da dove nascono i princìpi di conservazione della Fisica?

La parola “conservazione” è una delle più ripetute su tutti i libri di fisica, ed è una delle prime parole prettamente “teoriche” imparate da bambini, a cui viene insegnata la “conservazione della massa” e dell’energia ancora prima di arrivare al liceo.
Quello che però non gli viene insegnato è il “perché” la scienza sia governata da princìpi di conservazione, ma c’è poco da biasimare: nessuno lo sa. Tuttavia la fisica teorica dell’ultimo secolo ha trovato il modo di interpretare matematicamente questo fatto, e il risultato è delizioso, ma ha a che fare con due concetti fondamentali: la trasformazioni e la simmetria sotto trasformazioni.

Trasformazioni e simmetrie

Detto in soldoni la fisica studia il comportamento dei sistemi sotto particolari tipi di trasformazione.

Se a un fisico presenti un qualsiasi oggetto, la prima cosa che gli interessa è controllare come reagisce l’oggetto sotto una trasformazione.

Un esempio di oggetti che possiamo descrivere con una proprietà di forma geometrica.
A sinistra un oggetto simmetrico sotto una riflessione attorno al suo asse verticale, a destra un oggetto asimmetrico sotto la stessa trasformazione.

Tutta la scienza fa ciò: prende un oggetto e ne verifica il comportamento sotto alcune trasformazioni, perché nei secoli si è capito che questo è il miglior modo per studiare il mondo che ci circonda.
Un esempio tipico di trasformazione è la rotazione spaziale: si tratta di ruotare gli oggetti attorno a qualsiasi asse passante per essi. Una volta effettuata la trasformazione ci si può chiedere quali proprietà dell’oggetto si vogliono indagare.
Ad esempio puoi prendere in mano il tuo telefono ed elencarne alcune proprietà:
La prima proprietà può essere quella ontologica: il telefono è un telefono perché è costruito in modo da funzionare come un telefono. La seconda proprietà può essere funzionale: la facciata del telefono ha funzione di touchscreen, mentre il retro non ha questa funzione. Una terza proprietà può essere la forma geometrica: un telefono è rettangolare.

Eseguiamo una trasformazione: ruotiamo il telefono di 180 gradi rispetto al suo asse verticale, cioè giriamolo in modo che ora il retro sia rivolto verso di noi.

Una volta ruotato il telefono possiamo chiederci: come sono cambiate le proprietà che avevamo elencato?

  • La prima proprietà non può variare: un telefono rimane tale indipendentemente da che angolo lo guardi.
  • La seconda proprietà varia, perché ora non puoi usare il touchscreen sul retro.
  • La terza proprietà non varia: un telefono rimane di forma rettangolare anche se ruotato.
La forma geometrica di una sfera è simmetrica sotto qualsiasi rotazione.

Possiamo quindi classificare il telefono come un oggetto le cui proprietà variano in questo modo sotto una rotazione spaziale di 180 gradi attorno al suo asse verticale.
I fisici teorici lavorano così.

Se una certa proprietà rimane uguale a se stessa sotto una trasformazione, diremo che quella proprietà è una simmetria sotto quella trasformazione.

La simmetria è una “immunità” a una certa trasformazione.

Facciamo un altro esempio. Consideriamo la sfera in figura, caratterizzata da un simbolo a forma di stella sulla sua superficie. Questa sfera può essere caratterizzata da due proprietà: la sua forma geometrica e la posizione della stellina. Potremmo classificare questo oggetto chiamandolo anche “sfera con una stellina in alto a sinistra”.

È intuitivo che sotto qualsiasi rotazione la sfera rimanga una sfera ai nostri occhi, ma la proprietà “stellina in alto a sinistra” cambia in base al tipo di rotazione. Ad esempio se riflettiamo la sfera attorno al suo diametro orizzontale, ora la proprietà cambierà in “sfera con stellina in basso a sinistra”.

La lezione da portare a casa è che non tutte le proprietà con cui possiamo descrivere un oggetto rimangono invariate sotto una trasformazione, e non c’è nulla di male in ciò. Una simmetria va sempre riferita al tipo di trasformazione effettuato.
Possiamo dire che una sfera è simmetrica sotto rotazione, ma non possiamo dire che “sfera con stellina in alto a sinistra” rimane simmetrica sotto qualsiasi rotazione, ma magari solo per rotazioni di 360 gradi.

La conservazione e il teorema di Noether

Una classe speciale di trasformazioni in fisica sono le traslazioni. Possiamo considerare un certo sistema e segnare la sua posizione tramite degli assi cartesiani. In questo modo possiamo elencare alcune proprietà: ad esempio la massa dell’oggetto e la sua interazione con l’ambiente circostante, il suo moto ecc.

Una particella in uno spazio completamente vuoto e identico in ogni suo punto.

Per essere concreti consideriamo una particella in uno spazio completamente vuoto e identico in ogni suo punto. Siccome lo spazio è vuoto ed identico in ogni suo punto, se spostiamo la particella in un altro punto le sue proprietà di moto non possono variare, altrimenti significherebbe che una qualche posizione spaziale è più speciale di altre, in contraddizione con l’ipotesi di spazio identico.
Non solo la proprietà di “particella” rimane invariata sotto la traslazione spaziale, ma anche le sue proprietà di moto.

La simmetria delle proprietà di moto viene chiamata quindi “conservazione” di una certa quantità, che in questo caso è la quantità di moto: una particella, come ci diceva Galileo, prosegue indisturbata nel suo moto rettilineo in assenza di forze, o rimane ferma se era già ferma.

Se invece ci fosse una forza, generata da una sorgente localizzata nello spazio, allora perderemmo l’equivalenza dei punti spaziali: non può esserci conservazione della quantità di moto, perché la quantità di moto varia in base alla forza applicata.

Non tutte le proprietà rimangono simmetriche sotto una certa trasformazione. Supponiamo però che ora la sorgente di forza abbia una simmetria circolare, cioè che la forza sia la stessa lungo una circonferenza immaginaria centrata attorno alla sorgente.
In tale modo abbiamo ottenuto una simmetria sotto rotazioni attorno all’asse della sorgente. Per via di questa simmetria la traiettoria della massa è influenzata allo stesso modo indipendentemente da che angolo formi rispetto alla posizione della sorgente, ciò consente la conservazione di un’altra proprietà di moto: il momento angolare.

Abbiamo perso la conservazione della quantità di moto, ma abbiamo guadagnato la conservazione del momento angolare, che nasce da un’altra simmetria del sistema sorgente-particella.

Emmy Noether, fisica matematica tedesca. Nel 1915 pubblicò uno dei risultati più spettacolari della fisica teorica.

Il pattern è chiaro: una certa simmetria spaziale di un sistema fisico genera la conservazione di una certa proprietà del suo moto, e questo è il contenuto del teorema di Noether. Il risultato è spettacolare:

Le leggi di conservazione nascono dalle
simmetrie.


Emmy Noether era contemporanea di Einstein, il quale proprio in quegli anni ci insegnò che spazio e tempo devono fare parte di un unico concetto: lo spaziotempo. Se consideriamo le traslazioni spaziali dobbiamo quindi considerare anche le traslazioni temporali e studiare le trasformazioni dei sistemi fisici sotto tali traslazioni.

Il principio di conservazione dell’energia nasce proprio dalla simmetria sotto traslazioni temporali: se le interazioni di un sistema non variano nel tempo, deve conservarsi il suo contenuto energetico.

Energia e quantità di moto sono quindi due proprietà di un sistema che rimangono invariate sotto una traslazione temporale per la prima, e spaziale per la seconda.

Ciò aprì le porte alla fisica delle simmetrie, che ha permesso la classificazione di tanti tipi di interazione, con le relative particelle mediatrici. Infatti molti oggetti della fisica vengono classificati semplicemente in base a come trasformano: il modo che abbiamo di distinguere un processo di interazione da un altro è proprio osservarne il comportamento sotto trasformazioni. Nel tempo sono state studiate tante altre simmetrie:

  • La simmetria di inversione spaziale.
  • La simmetria di inversione temporale.
  • La simmetria sotto cambi di coordinate.
  • La simmetria sotto cambi di sistemi di riferimento inerziale.
  • ….

e da ciascuna di queste simmetrie è nata una teoria capace di spiegare i risultati sperimentali. Ad esempio la richiesta di simmetria di alcune quantità fisiche sotto un cambio di coordinate tra due sistemi in moto uniforme ha condotto alla relatività di Einstein. Oggi le nuove teorie della fisica vengono costruite sui princìpi di simmetria.



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