Un suo teorema cambiò per sempre la Fisica Teorica

Nascere in Baviera nel momento di maggior splendore del Secondo Reich comportava grossi vantaggi, ad esempio le opportunità accademiche: l’Impero Tedesco era il leader mondiale nelle scienze matematiche e fisiche.

Ciò era dovuto ai sostanziosi investimenti nella struttura scolastica e nelle università, il cui effetto collaterale fu quello di dare strumenti e voce a tante personalità geniali che altrimenti sarebbero rimaste inascoltate.

Immaginiamo ora di nascere in quelle circostanze, ma al contempo essere privati di tutte queste opportunità per via del proprio sesso.

Emmy Noether: 1882-1935

Il destino della giovane Emmy Noether sarebbe dovuto essere segnato già dalla sua nascita: il ceto borghese a cui apparteneva si aspettava precisamente che diventasse una maestra di inglese e francese.

Infatti alle ragazze non era concesso di puntare all’istruzione universitaria, dovevano fermarsi qualche passo prima.

Il padre di Noether era professore di matematica all’Università di Erlangen, mentre due dei suoi tre fratelli erano scienziati. La famiglia poteva quindi dare il necessario supporto a una carriera accademica, ed Emmy non aveva alcuna intenzione di essere lasciata indietro: voleva studiare matematica.

Per completare la sua formazione pre-universitaria decise di andare ad ascoltare le lezioni all’università di Erlangen, e per fare ciò doveva chiedere il permesso a ciascun professore individualmente.

Fu così che, con tutta la caparbietà del mondo, riuscì ad ottenere il diploma di ginnasio che le permise di frequentare l’università di Gottinga (senza iscrizione, dato che alle donne non era permesso).

Anche stavolta poteva solo ascoltare le lezioni, ma senza la possibilità di partecipare. Possiamo solo immaginare la spiacevole sensazione del sentirsi completamente trasparenti, inascoltati, ogni giorno della propria esistenza. I più fortunati tra noi vivono solo occasionalmente situazioni di questo tipo, ma per Noether dovevano far parte della sua identità.

Finalmente nel 1904 l’università di Erlangen permise l’iscrizione alle donne, e Noether ottenne il dottorato in matematica nel 1907. Le venne quindi concesso di fare ricerca all’istituto matematico di Erlangen, senza retribuzione.
Da allora Noether collaborò con le menti più proficue dell’epoca: Fischer, Minkowski, Klein, Hilbert (lavorò persino alla relatività generale di Einstein), ma a differenza loro Noether non vedeva un centesimo.

Non solo, doveva tenere le sue lezioni sotto il nome di Hilbert, in qualità di sua assistente, per far sì che fossero autorizzate e frequentate.

In questo astio sociale che andava a ledere la dignità personale di Noether, sarebbe stato molto comprensibile decidere di cambiare carriera.

L’articolo originale (in tedesco) di Emmy Noether, 1918.

Il fatto che lei non lo fece non dovrebbe far sentire in colpa chi invece avrebbe mollato: ognuno gioca la sua partita con le carte dategli dal destino. Noether dimostrò senza dubbio una tenacia fuori dal comune, forte della stima espressa da eminenti colleghi come Hilbert ed Einstein.

Sta di fatto che al momento giusto riuscì a far valere la sua genialità: nel 1918 dimostra un teorema che avrebbe cambiato per sempre il modo di fare Fisica Teorica.

Il teorema di Noether

L’enunciato del teorema testimonia la magnifica creatività ed eleganza di Noether, dato che può essere riassunto in sole 8 parole:

Per ogni simmetria c’è una legge di conservazione

Per comprenderne il significato facciamo un passo indietro.

La fisica studia il comportamento dei sistemi sotto particolari tipi di trasformazione.

Se a un fisico presenti un qualsiasi oggetto, la prima cosa che gli interessa è controllare come reagisce l’oggetto sotto una trasformazione.

Un esempio di oggetti che possiamo descrivere con una proprietà di forma geometrica.
A sinistra un oggetto simmetrico sotto una riflessione attorno al suo asse verticale, a destra un oggetto asimmetrico sotto la stessa trasformazione.

Questo atteggiamento è tipico della Scienza: si prende un oggetto e se ne verifica il comportamento sotto alcune trasformazioni, perché nei secoli si è capito che questo è il miglior modo per studiare il mondo che ci circonda.


Un esempio tipico di trasformazione è la rotazione spaziale: si tratta di ruotare gli oggetti attorno a qualsiasi asse passante per essi. Una volta effettuata la trasformazione ci si può chiedere quali proprietà dell’oggetto si vogliono indagare.


Ad esempio puoi prendere in mano il tuo telefono ed elencarne alcune proprietà:


La prima proprietà può essere quella ontologica: il telefono è un telefono perché è costruito in modo da funzionare come un telefono.

La seconda proprietà può essere funzionale: la facciata del telefono ha funzione di touchscreen, mentre il retro non ha questa funzione.

Una terza proprietà può essere la forma geometrica: un telefono è rettangolare.

Eseguiamo una trasformazione: ruotiamo il telefono di 180 gradi rispetto al suo asse verticale, cioè giriamolo in modo che ora il retro sia rivolto verso di noi.

Una volta ruotato il telefono possiamo chiederci: come sono cambiate le proprietà che avevamo elencato?

  • La prima proprietà non può variare: un telefono rimane tale indipendentemente da che angolo lo guardi.
  • La seconda proprietà varia, perché ora non puoi usare il touchscreen sul retro.
  • La terza proprietà non varia: un telefono rimane di forma rettangolare anche se ruotato.

Possiamo quindi classificare il telefono come un oggetto le cui proprietà variano in questo modo sotto una rotazione spaziale di 180 gradi attorno al suo asse verticale.
I fisici teorici lavorano così.

Se una certa proprietà rimane uguale a se stessa sotto una trasformazione, diremo che quella proprietà è una simmetria sotto quella trasformazione.

La simmetria è una “immunità” a una certa trasformazione.

La forma geometrica di una sfera è simmetrica sotto qualsiasi rotazione.

Facciamo un altro esempio. Consideriamo la sfera in figura, caratterizzata da un simbolo a forma di stella sulla sua superficie. Questa sfera può essere caratterizzata da due proprietà: la sua forma geometrica e la posizione della stellina. Potremmo classificare questo oggetto chiamandolo anche “sfera con una stellina in alto a sinistra”.

È intuitivo che sotto qualsiasi rotazione la sfera rimanga una sfera ai nostri occhi, ma la proprietà “stellina in alto a sinistra” cambia in base al tipo di rotazione. Ad esempio se riflettiamo la sfera attorno al suo diametro orizzontale, ora la proprietà cambierà in “sfera con stellina in basso a sinistra”.

La lezione da portare a casa è che non tutte le proprietà con cui possiamo descrivere un oggetto rimangono invariate sotto una trasformazione, e non c’è nulla di male in ciò.

Una simmetria va sempre riferita al tipo di trasformazione effettuato.


Possiamo dire che una sfera è simmetrica sotto rotazione, ma non possiamo dire che “sfera con stellina in alto a sinistra” rimane simmetrica sotto qualsiasi rotazione, ma magari solo per rotazioni di 360 gradi.

La conservazione nel teorema di Noether

Una classe speciale di trasformazioni in fisica sono le traslazioni. Possiamo considerare un certo sistema e segnare la sua posizione tramite degli assi cartesiani. In questo modo possiamo elencare alcune proprietà: ad esempio la massa dell’oggetto e la sua interazione con l’ambiente circostante, il suo moto ecc.

Per essere concreti consideriamo una particella in uno spazio completamente vuoto e identico in ogni suo punto.

Una particella in uno spazio completamente vuoto e identico in ogni suo punto.

Siccome lo spazio è vuoto ed identico in ogni suo punto, se spostiamo la particella in un altro punto le sue proprietà di moto non possono variare, altrimenti significherebbe che una qualche posizione spaziale è più speciale di altre, in contraddizione con l’ipotesi di spazio identico.


Non solo la proprietà di “particella” rimane invariata sotto la traslazione spaziale, ma anche le sue proprietà di moto.

La simmetria delle proprietà di moto viene chiamata quindi “conservazione” di una certa quantità, che in questo caso è la quantità di moto: una particella, come ci diceva Galileo, prosegue indisturbata nel suo moto rettilineo in assenza di forze, o rimane ferma se era già ferma.

Se invece ci fosse una forza, generata da una sorgente localizzata nello spazio, allora perderemmo l’equivalenza dei punti spaziali: non può esserci conservazione della quantità di moto, perché la quantità di moto varia in base alla forza applicata.

Non tutte le proprietà rimangono simmetriche sotto una certa trasformazione.

Supponiamo però che ora la sorgente di forza abbia una simmetria circolare, cioè che la forza sia la stessa lungo una circonferenza immaginaria centrata attorno alla sorgente.


In tal modo abbiamo ottenuto una simmetria sotto rotazioni attorno all’asse della sorgente. Per via di questa simmetria la traiettoria della massa è influenzata allo stesso modo indipendentemente da che angolo formi rispetto alla posizione della sorgente, ciò consente la conservazione di un’altra proprietà di moto: il momento angolare.

Abbiamo perso la conservazione della quantità di moto, ma abbiamo guadagnato la conservazione del momento angolare, che nasce da un’altra simmetria del sistema sorgente-particella.

Il pattern è chiaro: una certa simmetria spaziale di un sistema fisico genera la conservazione di una certa proprietà del suo moto, e questo è il contenuto del teorema di Noether: le leggi di conservazione nascono dalle simmetrie.


Come ci ha insegnato Einstein con la Relatività Generale, se consideriamo le traslazioni spaziali dobbiamo quindi considerare anche le traslazioni temporali e studiare le trasformazioni dei sistemi fisici sotto tali traslazioni.

Se ti interessa la Fisica, iscriviti alla newsletter mensile! Ho pensato di scrivere una guida-concettuale di orientamento per aiutarti a capire da dove studiare.

Il principio di conservazione dell’energia nasce proprio dalla simmetria sotto traslazioni temporali: se le interazioni di un sistema non variano nel tempo, deve conservarsi il suo contenuto energetico.

Energia e quantità di moto sono quindi due proprietà di un sistema che rimangono invariate sotto una traslazione temporale per la prima, e spaziale per la seconda.

Ciò aprì le porte alla fisica delle simmetrie, che ha permesso la classificazione di tanti tipi di interazione, con le relative particelle mediatrici. Infatti molti oggetti della fisica vengono classificati semplicemente in base a come trasformano: il modo che abbiamo di distinguere un processo di interazione da un altro è proprio osservarne il comportamento sotto trasformazioni. Nel tempo sono state studiate varie simmetrie:

  • La simmetria di inversione spaziale.
  • La simmetria di inversione temporale.
  • La simmetria sotto cambi di coordinate.
  • La simmetria sotto cambi di sistemi di riferimento inerziali.
  • ….

e da ciascuna (o da gruppi) di queste simmetrie è nata una teoria capace di spiegare i risultati sperimentali. Ad esempio la richiesta di simmetria di alcune quantità fisiche sotto un cambio di coordinate tra due sistemi in moto uniforme ha condotto alla relatività di Einstein. Oggi le nuove teorie della fisica delle particelle vengono costruite sui princìpi di simmetria.

Da tutto ciò si intuisce l’impatto colossale del teorema di Noether sulla Fisica Teorica: la matematica tedesca ha cambiato il nostro modo di pensare, rendendolo sorprendentemente elegante.


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Matteo Parriciatu

Dopo la laurea in Fisica (2020) e la magistrale in Fisica Teorica (2023) all’Università di Pisa, studia simmetrie di sapore dei leptoni e teorie oltre il Modello Standard.

È membro della Società Italiana di Fisica.

È autore del libro “L’apprendista teorico” (2021).

Decodificando le equazioni di campo di Einstein per i non-esperti

Scoperte verso la fine del 1915, le equazioni di campo di Einstein della Relatività Generale rappresentano uno dei risultati intellettuali più importanti della nostra civiltà.

Le equazioni di campo di Einstein per la Gravità (1915).

Queste equazioni descrivono la Gravità in maniera completamente differente dalla legge di gravitazione newtoniana.

La Gravità di Newton è quel fenomeno a cui attribuiamo il moto, nello spazio e nel tempo, degli oggetti che si trovano nei pressi di altri oggetti massivi.

Per Einstein, la Gravità non è un fenomeno di per sé. Lo spazio e il tempo diventano quantità dinamiche, modificabili dalla materia che li riempie. A sua volta, la materia non può fare altro che muoversi nello spazio e nel tempo, con un moto dettato precisamente dalla geometria dello spazio e del tempo.

Parliamoci chiaro: lo spazio-tempo non è un fluido che interagisce con la materia, non è un qualcosa di tangibile, è ancora più pazzesco di così.

Lo spazio-tempo è una collezione di eventi a cui ogni corpo è fondamentalmente legato, perché è con gli eventi che capiamo la realtà. È il nostro modo di comprendere il mondo: “quell’oggetto stava lì, a quell’ora del giorno”.
Dal punto di vista matematico interpretiamo la collezione di eventi come una iper-superficie geometrica in quattro dimensioni (3 spaziali e 1 temporale). È questa la grande intuizione di Einstein.

Le equazioni di Einstein dicono come questa iper-superficie reagisce alla presenza di massa ed energia. Il concetto è semplice, ma le equazioni sono abbastanza complicate.

È quindi mia intenzione decodificarle per dimostrare come funzionano anche ai non-esperti del settore.

Chi è già esperto può invece comodamente leggersi la bibbia della gravitazione di Kip Thorne, J.A. Wheeler e C. Misner.

Per iniziare la decodificazione, concentriamoci sul cosa e sul come: cosa stiamo cercando di risolvere con queste equazioni? E come lo stiamo cercando?

Decodificazione: cosa stiamo cercando?

Siccome è difficile disegnare le iper-superfici a 4 dimensioni, concentriamoci su 3 dimensioni per fissare le idee. Considera questa figura:

Matematicamente, come fai a descrivere questo spazio? Immagina che questo fosse, in origine, un lenzuolo. Un lenzuolo disteso in uno spazio tridimensionale. Il lenzuolo, di per sé, ha due dimensioni (lunghezza e larghezza, se trascuri lo spessore), ma vive in uno spazio tridimensionale in cui possiamo giudicare se il lenzuolo è curvo verso l’alto o verso il basso, proprio come nella figura.

Prendi un pennarello e disegna due punti A e B su questo lenzuolo, come nella figura seguente:

Prendi un sistema di assi cartesiani x e y, come si fa a scuola: qual è la distanza più preve tra A e B? Naturalmente è data dal teorema di Pitagora

    \[l^2=\Delta x^2+\Delta y^2\]

dove \Delta x=x_B-x_A e \Delta y=y_B-y_A. Questa è chiamata geometria piatta di uno spazio, è tutto liscio, nessun rigonfiamento, nessuna depressione. Nelle coordinate x e y vale sempre:

    \[ds^2=dx^2+dy^2\]

Questa quantità si chiama metrica (dx significa \Delta x=x_B-x_A per x_B molto vicino ad x_A, cioè distanze molto piccole). I coefficienti davanti agli elementi dx^2 e dy^2 (che sono pari a 1 come vedi) si chiamano coefficienti della metrica, che è indicata come un oggetto a quattro componenti: g_{ij}. Siccome non ci sono termini misti del tipo dx\times dy diremo che questi hanno coefficiente zero davanti a loro. La metrica è un modo molto comodo di riassumere i contenuti geometrici di uno spazio.

Coefficienti per la metrica del lenzuolo.

In questo caso abbiamo g_{xx}=1, g_{yy}=1, g_{xy}=g_{yx}=0.

Se adesso pieghi il lenzuolo (ti è concesso stiracchiarlo sfruttandone l’elasticità), vedrai i punti precedentemente disegnati cambiare la loro posizione relativa. In uno spazio curvo la metrica ha un’espressione ben diversa da questa che abbiamo appena scritto.

Potremmo essere interessati a capire come varia questa metrica da punto a punto: quanto rapidamente si inclina verso l’alto? Quanto si inabissa? Potremmo chiederci: quanto varia g_{ij} in vista di un leggero spostamento nella direzione x? Il cambiamento della metrica lo indichiamo con \Delta g_{ij}.

Il simbolo \partial significa un cambiamento \Delta molto piccolo, nella direzione di x, tenendo la coordinata y inalterata. Un modo ancora più conciso di scrivere \partial g/\partial x è con il simbolo \partial_x g.

Un piccolo check: se la metrica è piatta posso spostarmi nella direzione x o y quanto voglio, ma lei non cambierà, non si innalza e non si inabissa, quindi \partial_x g=0 e \partial_y g=0.

Questo è il punto più importante che serve per capire le equazioni di Einstein.

Esiste una quantità chiamata “curvatura dello spaziotempo” la quale è una combinazione non lineare di termini come \partial_x g, \partial_y g, \partial_z g per le tre dimensioni spaziali, e \partial_t g per la dimensione temporale indicata col simbolo t. Le informazioni sulla curvatura sono racchiuse in simboli che indichiamo con R_{\mu\nu} e R:

Ora il simbolo \partial^2 g sta a significare “come varia la variazione della metrica”? Allo stesso modo in cui l’accelerazione ci dice come varia la variazione della posizione (cioè come varia la velocità).

Einstein voleva un’equazione che esprimesse la seguente frase: “questa distribuzione di massa ed energia fa sì che la metrica varii da punto a punto (tramite (\partial g)^2,\partial^2 g...) in questo modo qui. Sai trovare la metrica g che risponde di tale variazione come descritto qui?”.

Le equazioni di Einstein descrivono come varia la metrica: se conosci come varia, sai anche trovare la metrica stessa, e se conosci la metrica, conosci il moto di tutti i corpi che sono contenuti nello spaziotempo.

Decodificazione: i due membri

Concentriamoci ora sulla distinzione visiva. Un’equazione serve per trovare qualcosa in funzione di qualcos’altro. Pensa a x^2=4, significa: sai trovare quel numero x tale che il suo quadrato faccia 4?

La situazione è molto simile: sai trovare quegli oggetti geometrici dello spazio-tempo R_{\mu\nu}, R, g_{\mu\nu} tali che combinati in questo modo si ha uguaglianza con il contenuto di materia ed energia?

La materia-energia è contenuta nell’oggetto T_{\mu\nu}, mentre 8\pi è una semplice costante matematica. D’altra parte c e G sono la velocità della luce e la costante di gravitazione universale di Newton, rispettivamente.

La risposta a questa domanda permette di conoscere la curvatura dello spaziotempo in ogni suo punto.

Perché sono chiamate “equazioni” di Einstein, se di equazione se ne vede effettivamente solo una?

In realtà è un modo furbo e sintetico di rappresentarle. L’oggetto g_{\mu\nu}, come visto nell’esempio del lenzuolo, ha in realtà tante componenti. In due dimensioni spaziali (x e y) era un oggetto a quattro componenti. Qui abbiamo 10 componenti effettive (sarebbero 16, ma alcune sono uguali ad altre, quindi il numero si riduce per simmetria), ad esempio g_{tt}, g_{xt}, g_{yt}, g_{zt}, g_{xx},g_{yy},g_{zz},... etc.

Dobbiamo quindi leggere l’equazione di Einstein come ben 10 uguaglianze indipendenti tra loro!

È perfettamente analogo a quel che si fa con i vettori della fisica di Newton: l’equazione \vec{F}=m\vec{a} nelle tre dimensioni spaziali sono tre equazioni distinte:

Volendole descrivere con un formalismo più vicino a quello delle equazioni di Einstein, possiamo indicarle con la seguente notazione: F_i=m\,a_i dove i è un indice che scorre sui tre assi cartesiani i=\{x,y,z\}.
Ricordando poi che l’accelerazione è la variazione della velocità nel tempo a=dv/dt, che a sua volta è la variazione della posizione nel tempo v=ds/dt, potremo indicare con a_i=\partial_t^2 s_i se s_i è la posizione nell’asse x, y o z.

Le equazioni di Einstein hanno un significato concettuale simile. Nel caso di Newton ci interessa trovare lo spostamento s_i in funzione del tempo, nota la distribuzione di forze F_i e la massa del corpo. L’equazione chiave per trovare ciò ci dice “sapendo che lo spostamento varia in questo modo, data la forza, trova lo spostamento ad ogni istante di tempo“.

Nel caso di Einstein le equazioni dicono “sapendo che la metrica varia in questo modo, data la sorgente, trova la metrica in ogni punto dello spazio“. E sono esprimibili in una maniera abbastanza analoga:

In realtà l’informazione contenuta è molto più ricca. Conoscendo T_{\mu\nu} (la materia e l’energia presenti nello spaziotempo) possiamo trovare la forma dello spaziotempo (contenuta in g_{\mu\nu}). Tuttavia la conoscenza di questa forma ci dice pure come si muoveranno massa ed energia.

La materia dice allo spaziotempo come curvarsi, e lo spaziotempo dice alla materia come muoversi

J.A. Wheeler

Un esempio molto semplice di sorgente massa-energia si ha nel caso di fluido perfetto in equilibrio termodinamico. Un fluido perfetto è caratterizzato dalla sua densità volumica \rho e dalla sua pressione P. Il tensore T_{\mu\nu} ha la seguente forma:

Inserendo T_{\mu\nu} nelle equazioni di Einstein è possibile risalire alla struttura dello spaziotempo g_{\mu\nu}, in riposta alla presenza di questo fluido!

Come mai le equazioni hanno questa forma?

Le equazioni di campo di Einstein hanno una forma poco familiare rispetto alle quantità che si maneggiano di solito in fisica classica. Per realizzare matematicamente quello che Einstein voleva esprimere, e cioè che la fisica non deve dipendere dalle coordinate di chi la sta studiando, era fondamentale che le equazioni per lo spaziotempo fossero tensoriali.

La metrica g_{\mu\nu} è un tensore. La sorgente di massa-energia T_{\mu\nu} è un tensore.

Un tensore è un oggetto matematico che permette di scrivere equazioni che non dipendono dalle coordinate utilizzate, grazie alla sua proprietà di trasformazione sotto cambiamenti di coordinate.

Questa richiesta complica terribilmente le equazioni della teoria, ma le rende infinitamente eleganti, perché assumono carattere di universalità: sono valide per tutti.

Non importa che coordinate utilizzi per studiare la Gravità: sarà sempre una manifestazione della curvatura dello spaziotempo, studiabile nelle coordinate che più ti tornano comode.

Le equazioni di Einstein sono ENORMEMENTE complicate da risolvere, anche nei casi più semplici. Si tratta di equazioni differenziali alle derivate parziali e non lineari, la cui soluzione analitica si conosce solo per un ristrettissimo numero di situazioni altamente semplificate e simmetriche (per tutto il resto, ci sono i computer).

Ad esempio, concentrandoci sullo spaziotempo vuoto attorno a una distribuzione di massa M a simmetria sferica, il lato destro delle equazioni di Einstein è nullo dato che T_{\mu\nu}=0

La metrica g_{\mu\nu} che risolve questa equazione (oltre alla soluzione banale di metrica piatta) è data da:

in cui r è la distanza dalla sorgente di massa M, \theta è una coordinata angolare, ed r_s è definito come raggio di Schwarzschild r_s=2GM/c^2. Il primo termine in alto a sinistra è g_{00}, la componente puramente temporale (chiamato anche g_{tt}), mentre sulla diagonale abbiamo g_{11},g_{22} e g_{33}, altrimenti indicati con g_{xx}, g_{yy}, g_{zz}.

Per valori della distanza r vicini al raggio di Schwarzschild r_s, uno dei termini della metrica (g_{11}) diventa molto grande perché stiamo dividendo per un numero molto vicino a zero. La curvatura dello spaziotempo aumenta sempre di più man mano che la nostra distanza dalla sorgente diminuisce.

Rappresentazione bidimensionale della metrica di Schwarzschild.

Questa metrica g_{\mu\nu} è un esempio di soluzione delle equazioni di Einstein: descrive lo spaziotempo attorno a una massa M. Ad esempio lo spaziotempo attorno al Sole ha una struttura di questo tipo. Anche lo spaziotempo attorno alla Terra ha questa struttura. Anche lo spaziotempo attorno a un buco nero.

Dove si nasconde Newton?

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La Gravità di Einstein è una versione ultra-sofisticata della Gravità di Newton, in cui i concetti di spazio e tempo si uniscono e diventano dinamici. Nel mondo di Einstein, il tempo è relativo, la velocità della luce è un limite universale, e non esiste l’azione istantanea delle forze, ma tutto deve essere mediato dai campi.

Come faceva Einstein a sapere di aver ragione? Beh, la sua teoria doveva anche essere in grado di riprodurre due secoli di successi della gravitazione di Newton. Scrivendo l’accelerazione come \vec{a}=d^2\vec{x}/dt^2 la legge di Newton per la gravitazione di un corpo attorno a una massa M è

L’accelerazione non dipende dalla massa del corpo che cade. Come sai, tutti i corpi accelerano allo stesso ritmo, a parità di distanza dalla sorgente. Questa è una caratteristica unica della Gravità, e ad Einstein venne in mente che proprio per questo motivo la Gravità non è una forza, ma il risultato del moto in uno spaziotempo curvo: tutti i corpi dell’universo si muovono su traiettorie di caduta libera nello spaziotempo, chiamate geodetiche.

Una volta nota la metrica dello spaziotempo, sai come si muoveranno gli oggetti nello spaziotempo.

Nel contesto einsteiniano una geodetica x(\tau) è una traiettoria nello spaziotempo che soddisfa la seguente equazione:

La lettera \mu è un indice che scorre tra i valori \{0,1,2,3\}.

Espressione che mette un po’ d’ansia se vista per la prima volta, lo ammetto. Sappi solo che serve a trovare una traiettoria nello spaziotempo. Lo spaziotempo è contenuto dentro il simbolo \Gamma_{\nu\rho}^\mu: la metrica g_{\mu\nu} (e la sua variazione) è proprio contenuta dentro \Gamma. Per questo motivo Wheeler diceva che lo spaziotempo dice alla massa come muoversi.

La Gravità di Newton si recupera richiedendo che:

  • le velocità coinvolte devono essere molto più piccole di quella della luce v\ll c;
  • la curvatura dello spaziotempo non sia troppo elevata. Ad esempio ci mettiamo a distanza r\gg r_s, lontani dal raggio di Schwarzschild.

Così facendo, l’espressione per l’equazione delle geodetiche si approssima così (non è formalmente precisissima, ma mi serve per far rendere l’idea)

Chi è g_{00}? Guardiamo la metrica g_{\mu\nu} trovata sopra:

Dunque per trovare l’accelerazione basterà fare la derivata di g_{00} rispetto ad r. Se non sai cosa è una derivata, ti basti sapere che il calcolo produce (d/dr)(1/r)=-1/r^2, e che la derivata di una costante fa zero.

La velocità della luce c^2 si semplifica in quanto tutta l’equazione delle geodetiche era in realtà moltiplicata da 1/c^2 (anche se te l’ho nascosto per semplicità). Sostituendo, il risultato è quindi:

e cioè proprio l’espressione newtoniana.


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Matteo Parriciatu

Dopo la laurea in Fisica (2020) e la magistrale in Fisica Teorica (2023) all’università di Pisa, studia simmetrie di sapore dei leptoni e teorie oltre il Modello Standard, interessandosi anche di Relatività Generale.

È membro della Società Italiana di Fisica.

È autore del libro “L’apprendista teorico” (2021).

La Dolce Vita tra i Calcoli Sbagliati – Cronache di Fisica Teorica

Cambio posizione per l’ennesima volta. La scalinata davanti al Palazzo Ducale di Genova non è uno dei posti più comodi per mettersi a scrivere calcoli sul tablet. La speranza è che la scomodità della situazione stimoli il cervello a produrre più di quanto farebbe a casa.

È il mio primo tentativo nel mondo della ricerca in Fisica Teorica, e davvero sento di non poter sbagliare. In qualche modo sono convinto che un ricercatore alle prime armi abbia a disposizione un solo tentativo, altrimenti è tacciato di incompetenza. Qualcosa tipo “se non ottieni risultati, almeno salvati la reputazione e non commettere errori”.

Tra le questioni da indagare nel mio lavoro ce n’è una che mi sta molto a cuore: una spiegazione teorica del perché elettrone, muone e tau (tre particelle “sorelle” da tutti i punti di vista) abbiano masse così spropositatamente diverse:

Elettrone, muone e tau, assieme al bosone di Higgs.
  • Rapporto massa elettrone/muone m_e/m_\mu\approx 1/200
  • Rapporto massa muone/tau m_\mu/m_\tau\approx 1/17

Questi rapporti non sono in nessun modo giustificati nel Modello Standard. È un puzzle vero e proprio nella fisica delle alte energie: perché particelle così simili in tutto e per tutto devono differire in maniera così marcata nelle loro masse?

Non che stessi provando a fare nulla di nuovo, negli ultimi 40 anni sono state pubblicate molte teorie (non verificate) in grado di spiegarlo, il punto è che il lavoro di ricerca prevedeva la risoluzione di questo puzzle in un contesto più ampio, una nuova simmetria della Natura proposta di recente: la simmetria modulare. Tale simmetria aiuterebbe a fare previsioni sulle particelle più elusive che conosciamo: i neutrini.

La simmetria modulare funziona molto bene, ma non è facile incastrarci in maniera naturale quei rapporti di massa. Questo era parte della scommessa del nostro lavoro di ricerca. Nulla di sconvolgente, ma un possibile (interessante) avanzamento in un’area molto misteriosa.

Il Sole picchia forte su quella scalinata, e man mano che si sposta nel cielo traccia un’ombra che io sono costretto a seguire per vedere meglio i miei calcoli. Nella mente riecheggiano le parole del mio supervisore, sentito poco prima in una informalissima chiamata Teams al telefono:

Quei pesi modulari possono avere un ruolo nella spiegazione dei rapporti di massa, qualcosa che non è stato ancora provato…

I “pesi modulari” sono speciali coefficienti con cui scriviamo le teorie di simmetria modulare, e sono collegati in qualche modo agli accoppiamenti delle particelle con il campo di Higgs (il quale dà massa alle particelle, come sai). Detto in maniera spiccia: un peso diverso corrisponde a un accoppiamento più o meno forte con il campo di Higgs, per via di interazioni che avvengono a energie altissime con altri campi ad oggi sconosciuti.

Il mio obbiettivo è quello di spiegare con lo stesso modello sia i rapporti di massa di queste tre particelle, sia alcuni parametri fondamentali nelle oscillazioni dei neutrini. La maggior parte dei modelli “modulari” in letteratura riesce a fare solo la seconda cosa.

Provo quindi tutte le combinazioni possibili di pesi da assegnare. Dai! Elettrone, muone e tau, da qualche parte dovrete pur distinguervi l’uno dall’altro. Nessuna strada mi convince, forse perché cerco di essere più ortodosso possibile: non sia mai che proponga una mia idea originale col rischio di metterci la faccia e fallire quella che io penso sia la mia unica chance.

Tra un calcolo e l’altro, le ore scorrono a una velocità impressionante: un soleggiato (ma freddo) pomeriggio autunnale inizia a volgere al termine.

Sono sempre stato uno studente più “visivo” che “logico” quando si tratta di conti, cerco anzitutto analogie e somiglianze tra i simboli. Spesso funziona, e se funzionasse pure stavolta?

Mi intestardisco su un’idea: e se dessi dei pesi diversi a queste tre particelle? Provo varie possibilità, decisamente alla cieca.

Verso il tramonto, inizio a notare un pattern nei miei calcoli. Un’assegnazione di pesi modulari pare riprodurre la gerarchia di masse correttamente. La mia testardaggine con quei calcoli pare premiarmi. Ho tentato un approccio un po’ meno ortodosso, ma sì sai forse che quasi quasi è anche…originale?

Il cuore salta un battito. Che bella la verginità del ricercatore alle prime armi: basta così poco.

Rialzandomi da quella scalinata, mi accorgo di aver perso sensibilità alle gambe dopo averle pressate per almeno 4 ore sul marmo fresco. Mentre sto perdendo l’equilibrio penso: l’mportante è non far cadere il tablet, no quello è troppo importante. Ovviamente per quello che ci sta scritto dentro.

Sono così paranoico che decido subito di mandare al mio supervisore una mail con le paginate che ho scritto. Paginate illeggibili, dunque inutili per chiunque non fosse me, ma dovevo in qualche modo salvarle. Potevo sempre essere rapito o finire in un tombino nella via di casa…e quelle pagine non avrebbero mai visto la luce del giorno.

Il tempo di allontanarmi dal Palazzo ed arriva una telefonata su Teams, è lui.

Nel momento in cui finisco la chiamata mi ritrovo quasi dall’altra parte della città. Nell’euforia ho percorso tutto viale XX settembre. Sono convinto di essermi giocato la mia unica carta da fisico teorico, e che forse è quella vincente.

Ricordo bene quella sensazione mistica: mi sentivo davvero in comunicazione con le leggi della Natura, la stessa sensazione che mi ha sempre attratto alla Fisica. Le parole entusiaste del mio supervisore mi hanno folgorato.

Quella chiamata su Teams ha però esaurito le ultime energie vitali del mio telefono. Un’ottima occasione per riflettere su quanto fatto, in solitudine, per riprendersi dallo shock.

Camminando, l’euforia lascia il posto a una strana sensazione di sollievo: penso “fiùu, per fortuna me la sono giocata bene questa carta, ora posso essere preso sul serio“. Subentra anche una certa ansia da prestazione: ora che ho mosso bene il primo passo, ci si aspetta che azzecchi pure il prossimo? E così via, senza fine? Quasi toglie un po’ di sapore a quella che penso essere la vita del ricercatore.

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Quella notte non riesco a prendere sonno, vorrei sia subito mattina per ritornare a lavorare, e magari scrivere in bella copia quei risultati preliminari.

Ma, come a volte mi capita (specialmente dopo aver dato un esame scritto) la notte è portatrice di lucidità divina. Inizio ad avere dei sospetti su quello che ho fatto, così mi alzo e mi presento in salotto, illuminato al chiaro di Luna, tablet in una mano e computer nell’altra. Mi rileggo un po’ di articoli su questa nuova teoria, in cerca di eventuali punti deboli nel mio ragionamento.

L’orgoglio scaturito dalla giornata mi impedisce di avere grossi dubbi, ma ho anche fiducia nella mia attività cerebrale in regime di dormiveglia: se ho accumulato qualche sospetto ho il dovere di controllare.

La città inizia a risvegliarsi, e assieme a lei il cinguettio degli uccellini del parco vicino. Fa un suono ben più forte il tonfo del mio cuore mentre realizzo che ho trascurato alcuni vincoli fondamentali nelle equazioni del modello.

Il modello che ho trovato non è corretto perché alcuni vincoli di simmetria non sono rispettati.

Tutto distrutto, tutto in malora, per via di un dettaglio.

Con mia enorme sorpresa, il tonfo non è però doloroso, somiglia più a quella sensazione che hai dopo essere sceso dalle montagne russe. Lo spavento è intenso, ma la voglia di rifarlo lo è ancora più.

In pochissimi secondi ho il vero lampo della giornata: non sono deluso, sono estasiato. Tutto ha molto più sapore, e arriva il vero sollievo.

La dolce illusione di aver trovato qualcosa di nuovo è molto più gustosa del risultato in sé. In quelle chiamate su Teams non ero entusiasta solo per l’elettrone, il muone e il tau, ma anche per la possibilità di conversare con un altro ricercatore su questioni difficili di cui nessuno sa la risposta certa.

Quella notte, in quell’istante, realizzo di essere orgoglioso di me.

Il tentare e ritentare, senza l’obbligo di dover trovare tutto al primo colpo, questa è la Ricerca. Il ricercatore può (e deve) sbagliare tanto, perché ha poi il dovere di informare gli altri su quali strade non funzionano.

Chiaramente il mio era un approccio infantile. Ma quanto spesso pensiamo di doverci giocare la carriera in un colpo solo? Quante volte rigettiamo il fallimento! Quante volte sentiamo di dover dimostrare qualcosa per darci un po’ di tregua e accettarci?
Eppure, quante altre volte la ricerca del successo è ben più saporita del successo stesso?

In quell’attimo, ho capito davvero perché mi interessa la strada della ricerca.


Matteo Parriciatu

Dopo la laurea in Fisica (2020) e la specializzazione in Fisica Teorica (2023) all’Università di Pisa, studia simmetrie di sapore dei leptoni e teorie oltre il Modello Standard, interessandosi anche di Relatività Generale.

È autore del libro “L’apprendista teorico” (2021).

PS. ho scritto un libro di testo che rappresenta proprio ciò che avrei desiderato leggere all’inizio dei miei studi di Fisica teorica, per renderla accessibile agli amatori e insegnare le tecniche matematiche necessarie a una sua comprensione universitaria. Si chiama “L’apprendista teorico” , dai un’occhiata per vedere di cosa si tratta. Il libro è acquistabile su Amazon.

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Il Graal della Fisica: perché l’Unificazione tra Gravità e Quantistica è Tecnicamente Ardua?

Tra le quattro interazioni fondamentali, l’unica a non ammettere (ad oggi) una convincente e comprovata trattazione quantistica è la Gravità.

Che la situazione sia questa non è di certo cosa nuova. D’altra parte le tre interazioni fondamentali quantistiche (forza forte, forza debole ed elettromagnetismo) trovano una naturale collocazione nel mondo microscopico, dove la quantistica fa da padrona, appunto.

Anzi, dal punto di vista della fisica teorica, queste tre interazioni (si dimostra) sorgono in maniera naturale nella teoria quantistica una volta incorporati i princìpi della Relatività Speciale tramite alcune simmetrie aggiuntive (chiamate simmetrie di gauge).

La Gravità, invece, trova una naturale collocazione nel mondo macroscopico, con Newton (prima) ed Einstein (oggi).

Però ho letto che molti gruppi di ricerca stanno lavorando a diverse teorie di Gravità quantistica. Qual è lo stato odierno della ricerca?

Semplicemente: non abbiamo una teoria quantistica della Gravità che sia in grado di passare dal microscopico (mondo quantistico) al macroscopico (pianeti, cosmologia etc.) in maniera univoca e naturale.

Microscopico e macroscopico: quanto ci piacerebbe che la Gravità fosse un po’ più simile all’elettromagnetismo. L’elettromagnetismo ammette sia una descrizione quantistica (elettrodinamica quantistica, o QED) che una descrizione classica (le leggi di Maxwell che studiamo al liceo). Dal punto di vista quantistico, delle particelle chiamate fotoni fanno da intermediarie tra le cariche elettriche. A partire da questa descrizione quantistica è facile ricavare la descrizione classica ottocentesca di Maxwell, in cui dei fotoni ce ne freghiamo altamente.

La Gravità, però, è così tanto diversa…

Diversa in che senso? Mi pare di aver letto che elettromagnetismo e Gravità siano anzi molto simili, in fisica classica entrambe dipendono dalla distanza con la legge 1/r^2 ad esempio…

Oltre al fatto che in Gravità possiamo avere solo attrazione e mai repulsione, c’è anche quest’altro fatto: una particella elettricamente neutra non “sente” il campo elettrico che la circonda.


La Gravità invece? Niente è in grado di “spegnere” la Gravità. Anche un corpo senza massa “sente” il campo gravitazionale attorno a lui, ad esempio la luce viene deflessa dal campo gravitazionale. Questo è spiegato, in Relatività Generale, dal fatto che la Gravità non è altro che la manifestazione della curvatura dello spaziotempo. Tutti gli oggetti seguono le traiettorie naturali dettate dalla curvatura dello spaziotempo, non possono fare altrimenti. La curvatura dello spaziotempo è a sua volta dettata da quanta massa ci sta dentro.

Che la Gravità fosse essenzialmente diversa dall’elettromagnetismo si capiva già dalla teoria di Newton. Ricordi F=ma? Se cerchi l’accelerazione di un corpo sottoposto al campo gravitazionale, trovi che l’accelerazione non dipende dalla massa del corpo, ma solo dalla massa di chi il campo gravitazionale lo ha generato. La famosa forza di Coulomb per il campo elettrico, invece, prevede che l’accelerazione di un corpo dipenda sia dalla sua carica elettrica, sia dalla sua massa. Parliamo quindi di due cose completamente diverse.

Qui k è la costante elettrica di Coulomb, mentre G è la costante di gravitazione universale di Newton. Nell’elettromagnetismo, l’accelerazione di un corpo dipende dalla sua massa, mentre nella Gravità no. Nella Gravità, la massa si semplifica.

D’accordo, sono forze molto diverse. Per questo motivo Einstein intuì che la Gravità doveva essere legata alla struttura stessa dello spaziotempo.

Ciò che non capisco ora è perché questo fatto renda così difficile quantizzare la gravità.

Uno dei primi problemi è puramente tecnico: nel Modello Standard (il quale ingloba le tre interazioni quantistiche citate prima), i fenomeni tra le particelle sono descritti sul palcoscenico dello spaziotempo della Relatività Speciale: uno spaziotempo piatto che agisce passivamente, il cui unico scopo è quello di permetterci di annotare le coordinate spaziali e temporali delle particelle nei processi quantistici.

Ho capito! Quindi il problema è che non sappiamo fare i calcoli in uno spazio curvo, è lo spazio curvo della Relatività Generale il problema?

No, in realtà sappiamo fare i calcoli del Modello Standard anche in uno spazio curvo. Curvo o piatto non fa differenza, ci si adatta. No, la difficoltà è un’altra: questo spazio, curvo o piatto che sia, deve essere fisso, indipendente dalla materia, deve essere uno spettatore, non un attore.

Le teorie quantistiche del Modello Standard sono scritte nel seguente modo: i campi quantistici delle particelle sono “costruiti” come funzioni dello spaziotempo. Le interazioni avvengono nello spazio e nel tempo, ma la presenza stessa delle particelle non determina che forma debba avere lo spaziotempo. Il Modello Standard non prevede la risoluzione di un’equazione che descrive la dinamica dello spaziotempo.

L’equazione che descrive la dinamica dello spaziotempo è invece la più importante della Relatività Generale ed è nota come equazione di campo di Einstein:

R_{\mu\nu}, R e g_{\mu\nu} sono quantità con cui descriviamo la geometria dello spaziotempo. Invece T_{\mu\nu} descrive il contenuto di materia-energia presente. L’equazione dice che tale contenuto determina la geometria stessa dello spaziotempo.

In realtà va usato il plurale, queste sono 10 equazioni (gli indici \mu,\nu=\{0,1,2,3\} esplicitano le componenti), equazioni differenziali altamente non lineari, alle derivate parziali (qualsiasi cosa voglia dire per te, se non hai dimestichezza, sappi che è un modo tecnico per dire “è tutto altamente incasinato”).

Cosa vogliamo trovare con queste equazioni? L’espressione per g_{\mu\nu}, chiamata “metrica“, cioè la forma geometrica dello spaziotempo.

Anche quando non c’è sorgente (cioè T_{\mu\nu}=0) non esiste una soluzione generica per le equazioni di Einstein. Certamente lo spazio piatto è una soluzione possibile, ma non LA soluzione più generica. In genere vanno assunte ulteriori simmetrie geometriche per trovare la soluzione anche nel caso più semplice (come la simmetria sferica attorno a un punto).

In sostanza, è questo uno dei principali motivi per cui è difficile raccordare il formalismo quantistico con quello della Relatività Generale, è proprio la dinamicità dello spaziotempo!

Prima di andare avanti ho una domanda:

e se fosse proprio così? Nel senso, non potremmo lasciare la Gravità per conto suo se la Natura ci suggerisce di fare così? Tre forze sono quantistiche e una forza è non-quantistica, per dire. Che ci sarebbe di male?

Intendi che dovremmo rinunciare a una descrizione quantistica della gravità? In questo senso è la Relatività Generale stessa (la attuale teoria classica della Gravità) che “si scava la fossa da sola”.

Perché si “scava la fossa” da sola?

Due parole: buchi neri. Sono previsti dalla Relatività Generale, ma la matematica smette di avere senso nella singolarità di un buco nero. La singolarità è il punto in cui la curvatura dello spaziotempo diventa infinita. Si suppone che a quel punto, vicino alla singolarità, entri in gioco una teoria più sofisticata della Gravità, che abbia a che fare con il microscopico: la gravità quantistica. Questa teoria potrebbe potenzialmente descrivere anche i primissimi istanti di vita dell’Universo.

D’accordo, quindi è sensato (e necessario) ricercare la gravità quantistica.

Ho sentito parlare in giro del gravitone, l’ipotetica particella quantistica mediatrice della Gravità (un po’ come il fotone nella QED)….Non è già questa una teoria quantistica?

Il gravitone è quanto di più “Modello Standard” tu possa fare con la Relatività Generale. Nelle teorie del Modello Standard ci piace lavorare nello spaziotempo piatto e immobile della Relatività Speciale, chiamiamolo \eta_{\mu\nu}.

Un’idea (primitiva) in Gravità quantistica è di considerare delle perturbazioni piccole di questo spazio piatto, chiamiamole h_{\mu\nu}(x). Lo spaziotempo può quindi essere espresso come la seguente somma: spazio piatto più una piccola perturbazione:

Nella cosiddetta “trattazione perturbativa” di una teoria quantistica di gravità, il gravitone è un quanto di eccitazione di questo campo h_{\mu\nu}(x), e così come il campo elettromagnetico prevede l’esistenza delle onde elettromagnetiche come dettato dalle leggi di Maxwell, il campo di perturbazione gravitazionale h_{\mu\nu} prevede l’esistenza di onde gravitazionali come dettato dalle equazioni di Einstein scritte sopra (in sostanza si sostituisce g_{\mu\nu}=\eta_{\mu\nu}+h_{\mu\nu}(x) al loro interno in assenza di sorgente, cioè T_{\mu\nu}=0).

Il problema è che questa trattazione perturbativa casca completamente quando si considerano alte energie, nulla ha più senso: sorgono degli infiniti che non è possibile rimuovere. Nelle altre tre interazioni fondamentali erano rimovibili, nel caso della Gravità ciò non è possibile, proprio per via della sua struttura altamente non-lineare.

Per questo motivo l’approccio perturbativo è stato presto abbandonato e si sono ricercate delle teorie più fondamentali, teorie quantistiche in cui lo spaziotempo è effettivamente dinamico, e non una mera “perturbazione” dello spaziotempo piatto sottostante e immutabile.

Sì, ne ho sentito parlare. Due in particolare sono molto famose: Teoria delle Stringhe e Gravità quantistica a Loop.

Sono alcuni degli approcci possibili, ma non gli unici, anche se oggi quei nomi hanno un significato un po’ diverso da quello che avevano 30 anni fa. Senza andare nei dettagli, queste teorie cercano di quantizzare la gravità in modi diversi: la gravità quantistica a loop ha un approccio geometrico e ha come unico scopo la quantizzazione della gravità. La teoria delle stringhe ha un obbiettivo molto più vasto, cioè l’unificazione e la descrizione di tutte le interazioni fondamentali, assieme a tutte le particelle ad oggi scoperte (e non).

  • Gravità quantistica a loop: ci interessa la struttura quantistica dello spaziotempo, che viene visto come una rete fatta di nodi e connessioni tra quanti discreti di spazio e tempo.
  • Teoria delle (super)stringhe: ci interessa la dinamica di ipotetiche piccolissime stringhe. La loro forma, la loro propagazione nello spaziotempo e i loro modi di vibrazione descrivono tutte le particelle, fino al gravitone.

Mi pare però di capire che nessuna delle due risulti essere la teoria definitiva della Gravità quantistica?

Purtroppo è così. In particolare è difficile inventare strumenti matematici in grado di risolvere le questioni tecniche citate prima, che siano compatibili sia con il mondo quantistico che con il mondo relativistico, in modo che dalla teoria fondamentale possa discendere anche un limite classico. Insomma, ci piacerebbe che le equazioni di Einstein uscissero in maniera naturale dai calcoli della teoria quantistica, nel limite di basse energie (o, equivalentemente, di grandi distanze).

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Non è chiedere troppo, d’altronde anche le equazioni di Einstein si riducono alle equazioni della gravità newtoniana (sì, anche la famosa dipendenza 1/r^2 della forza di gravità) se assumiamo un limite non relativistico (basse velocità rispetto a quella della luce, e spaziotempo quasi-piatto).

Che una teoria più sofisticata contenga al suo interno la teoria più “grezza” come limite, è un aspetto cruciale della fisica teorica. La Relatività Generale continua a superare ogni test sperimentale di giorno in giorno, per cui è importante che ogni teoria quantistica della gravità sappia riprodurre anche i suoi risultati. Il punto poi è scegliere LA teoria quantistica definitiva, tra le versioni più promettenti.


In questo senso, una delle difficoltà principali rimane quella della testabilità di queste teorie. Solo tramite test sperimentali siamo in grado di fare scienza.

Perché è difficile testare la teorie esistenti di gravità quantistica?

La Gravità è sfortunatamente l’interazione fondamentale più debole. Ad esempio l’attrazione gravitazionale tra due protoni risulta essere 10^{36} volte più debole della loro repulsione elettrica.

Per questo motivo, è estremamente complicato ricercare effetti gravitazionali nel mondo quantistico delle particelle. Infatti c’è pure chi ha fatto dimostrazioni euristiche sulla non osservabilità del gravitone! [F. Dyson (2013)].

Senza la guida sperimentale è impossibile trovare una teoria convincente?

Non è impossibile. Grazie agli sviluppi tecnologici degli ultimi decenni nel campo dei calcolatori, siamo stati in grado di esplorare nuovi approcci (chiamati approcci “non perturbativi”), i quali riguardano simulazioni numeriche di alcuni calcoli che a mano sarebbero proibitivi.

Questi che ho illustrato sono alcuni dei motivi per cui questo matrimonio è così difficile. Sicuramente ci saranno altri motivi più sottili, ma non essendo questo il mio campo (mi occupo di fisica delle particelle) preferisco non andare oltre. Una cosa rimane certa: con questo matrimonio ci giochiamo la chiave per la comprensione della realtà.

[Bibliografia]
R.Loll, G. Fabiano, D. Frattulillo, F. Wagner (2022).


PS. ho scritto un libro di testo che rappresenta proprio ciò che avrei desiderato leggere all’inizio dei miei studi di Fisica teorica, per renderla accessibile agli amatori e insegnare le tecniche matematiche necessarie a una sua comprensione universitaria. Si chiama “L’apprendista teorico” , dai un’occhiata per vedere di cosa si tratta. Il libro è acquistabile su Amazon.

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Matteo Parriciatu

Dopo la laurea in Fisica (2020) e la specializzazione in Fisica Teorica (2023) all’Università di Pisa, studia simmetrie di sapore dei leptoni e teorie oltre il Modello Standard, interessandosi anche di Relatività Generale.

È membro della Società Italiana di Fisica.

È autore del libro “L’apprendista teorico” (2021).

L’inversione del Tempo nella Gravità

Svuota la mente da tutte le complicazioni del mondo, elimina l’aria e altri attriti, e prova ad immaginare solo una palla sospesa sopra a un pavimento perfetto (cioè senza irregolarità nella sua superficie).

Lascia cadere la palla e registra quel che succede con una videocamera: la palla cade e rimbalza, ritornando su.

Ipotizza pure che la palla rimbalzi elasticamente in modo che la sua energia cinetica non sia dispersa in deformazione a causa dell’urto col pavimento.

La palla rimbalzerà fino a tornare all’altezza da cui è stata lanciata, per il principio di conservazione dell’energia totale. La sequenza in figura è da leggere come 1, 2 e 3.

Ok, wow. Che c’entra questo con l’inversione del tempo nella Gravità?

Abbiamo fatto un video di quanto accaduto, e la registrazione è suddivisibile in tre sequenze, indicate in figura dai numeri 1, 2 e 3. Che cosa vediamo ora se facciamo scorrere il filmato al contrario, cioè 3, 2, 1? Vediamo esattamente la stessa cosa: la palla inizia a scendere prima lentamente, poi sempre più velocemente fino a quando non rimbalza sul pavimento e arriva al fotogramma 1, in maniera del tutto identica alla sequenza 1, 2, 3!

Lo scenario 321 corrisponde all’inversione della freccia del tempo. L’inversione temporale consiste matematicamente nel cambiamento del segno davanti alla coordinata del tempo, indicata con “t”:

Impariamo quindi che la Gravità è simmetrica sotto inversione temporale! Significa che l’interazione gravitazionale rimane attrattiva indipendentemente dalla direzione del tempo.

Aspetta, ma se rimuovo il pavimento la palla cade verso il centro della Terra e rimane lì, non ritorna su!

Il filmato visto al contrario ha un aspetto ben diverso in quel caso: la palla arriva da giù e poi ritorna su (per starci), come se la Gravità fosse una forza repulsiva invece che attrattiva!

Ottima osservazione. Nel caso che hai citato, se guardassimo il filmato al contrario, sembrerebbe infatti che la Gravità stia “rigettando” la palla. In realtà bisogna studiare la situazione del filmato fotogramma per fotogramma come se fossimo degli investigatori.

  • Tempo normale: la palla parte dall’alto con velocità nulla, e viene man mano accelerata verso il basso per via dell’attrazione gravitazionale con la Terra. Come conseguenza la sua velocità (diretta verso il basso) ha un valore che aumenta sempre di più man mano che scende. C’è insomma qualche attrazione verso il basso che sta dicendo alla palla “vieni verso di me!”
  • Tempo invertito: la palla parte dal basso con grande velocità, ma stavolta direzionata verso l’alto. Man mano che la sua quota aumenta e si avvicina al punto da cui l’abbiamo lasciata cadere nel filmato originale, la sua velocità diminuisce sempre di più: c’è anche qui un’attrazione verso il basso che sta dicendo alla palla “fermati, torna da me, vieni verso di me!”

In entrambi i casi è la Gravità che dice alla palla di accelerare verso il basso, la direzione dell’accelerazione è sempre verso il centro della Terra. In questo senso intendiamo dire che la Gravità è simmetrica per inversione temporale.

Non so se debba sorprendermi o confondermi. E in ogni caso, mi pare una definizione costruita ad-hoc!

Almeno c’è un motivo fisico dietro?

Il motivo è molto semplice e sta dentro un dettaglio matematico. Chiamiamo dS lo spostamento in un piccolo segmento di traiettoria della palla, percorso in un tempo dt. Qui la lettera d ha un ruolo speciale che significa “piccola variazione di”:

  • dS significa “piccolo spostamento nello spazio S
  • dt significa “piccolo intervallo di tempo”

La velocità di un corpo è, a parole, quanto spazio abbiamo percorso in un certo tempo che abbiamo cronometrato. Normalmente si misura in metri al secondo, chilometri all’ora, etc. La preposizione articolata “al” sta a significare che spazio e tempo vanno divisi (matematicamente) tra loro. Infatti la velocità è definita come il rapporto tra dS e dt

Ok il fatto che la velocità cambi segno quando invertiamo il tempo dovrebbe vedersi da questa formula, giusto?

Esattamente, facciamo la trasformazione t \to (-t) nella formula e vedrai che il segno si propaga dal denominatore a tutta la frazione: segno invertito!

Questo ce lo aspettavamo: nel filmato la palla si muove effettivamente al contrario rispetto a prima, ma il suo valore assoluto non cambia (in particolare, il valore assoluto nel tempo rimane uguale punto per punto della traiettoria).

L’accelerazione invece (che nel nostro caso è dettata dall’interazione gravitazionale) è definita come la variazione della velocità nel tempo:

  • dv significa “piccola variazione nella velocità”

definita quindi come:

Abbiamo semplicemente sostituito al posto di v la sua espressione v=dS/dt data sopra.

Vuoi dirmi che da qui dovrebbe essere evidente che l’accelerazione conserva sempre lo stesso segno anche se invertiamo la coordinata del tempo?

Esattamente! Lo vedi applicando t \to (-t) nella formula:

meno per meno fa più, e il segno sparisce! All’accelerazione non frega nulla della freccia del tempo. Nel caso dell’accelerazione gravitazionale questo è proprio ciò che osserviamo.

Sì, molto bene. Però ho capito dove sta la furbizia: il mondo non funziona così!

Nel primo esempio la palla perde sempre anche solo una minuscola quantità di energia cinetica nel rimbalzo: si chiama dissipazione. Anche l’aria fa da attrito! Dunque, rivedendo il filmato al contrario, sarò capace di distinguere una direzione del tempo dall’altra.

La palla non tornerà mai esattamente alla stessa altezza da dove l’ho lasciata cadere.

Giustissima osservazione, di nuovo. Il punto è che quegli effetti non sono dovuti alla Gravità, ma alle interazioni della palla col mondo circostante. In un mondo senza attrito, la simmetria del tempo della Gravità è solo molto più evidente, tutto qua.

In fondo, ciò che ci permette di distinguere tra passato e futuro è proprio la dissipazione di energia in calore, collegato con l’aumento dell’entropia dell’universo.

D’accordo, ma perché secondo te tutto questo discorso è interessante?

Questa simmetria della Gravità sotto inversione temporale viene rotta esplicitamente nell’orizzonte di un buco nero, anche senza scomodare i concetti di entropia. Avrai forse sentito (clicca qui per un video pedagogico sull’argomento) che una volta superato il cosiddetto “orizzonte degli eventi” nulla può tornare indietro, neanche la luce può uscire.

Illustrazione bidimensionale dello spaziotempo attorno a un buco nero.

Se invertiamo la freccia del tempo sull’orizzonte, la Gravità si comporta in maniera diversa dato che non potremo mai vedere un oggetto tornare indietro superando l’orizzonte.

Possiamo vedere un oggetto che oltrepassa l’orizzonte venendo da fuori, ma non possiamo mai vederlo oltrepassarlo venendo dall’interno?

In realtà non lo vediamo nemmeno nel primo caso, dato che la luce ci mette sempre più tempo per raggiungerci man mano che l’oggetto si avvicina all’orizzonte. L’oggetto ci apparirà come “immobile” sull’orizzonte, ipotizzando che lo osserviamo a una certa distanza dal buco nero.

Ok stai tirando in ballo la Relatività Generale di Einstein senza dirlo pubblicamente. Se non masticassi l’argomento ti perderei qui, chiaro?

D’accordo allora concentriamoci sul messaggio da portare a casa: alcuni gruppi di ricerca stanno ipotizzando che la famosa “singolarità” di un buco nero preveda la possibilità di un “ribaltamento” della direzione del tempo.

L’interno dello spaziotempo di un buco nero potrebbe transitare quantisticamente in una configurazione in cui il tempo è invertito.

Tale transizione consiste nella trasformazione di un buco nero in un buco bianco.

Se ti interessa la Fisica, iscriviti alla newsletter mensile! Ho pensato di scrivere una guida-concettuale di orientamento per aiutarti a capire da dove studiare.

Da un buco nero nulla può uscire, in un buco bianco nulla può entrare. Un buco bianco è il futuro di un buco nero, il suo interno vede il tempo scorrere al contrario, e ora il suo orizzonte prevede la fuoriuscita di materia invece che il suo assorbimento [tutto ciò è discusso divulgativamente da C.Rovelli in “Buchi Bianchi” (Adelphi, 2023)].

La chiave di tutto ciò è che all’esterno un buco nero e un buco bianco sono del tutto simili: lo spaziotempo attorno è identico, la Gravità rimane attrattiva nonostante la direzione del tempo in un buco bianco sia ribaltata. Il motivo è proprio quello che abbiamo discusso prima: l’accelerazione è insensibile alla freccia del tempo.

Questo, di fatto, legittima l’ipotesi dei buchi bianchi: all’esterno, la loro esistenza non contraddice le leggi della Relatività Generale, l’Universo funziona ugualmente anche includendo i buchi bianchi. Il ribaltamento del tempo è compatibile con quanto sappiamo dell’Universo.

Invece, all’interno degli orizzonti, l’inversione del tempo gioca un ruolo fondamentale dato che consiste nel diverso comportamento di queste due entità.
Due entità (buco nero e buco bianco) che all’esterno sono indistinguibili, ma che all’interno si comportano in maniera opposta (uno fa l’inverso dell’altro).

Ho come l’impressione che tutto ciò sia solo un’introduzione molto semplificata. Dove sta l’entropia in questo gioco? La distinzione tra passato e futuro?

E inoltre, non avevi illustrato che un buco nero è in grado di emettere energia e rimpicciolirsi tramite la radiazione di Hawking? Come fa a evolversi in un buco bianco tenendo conto di ciò?

Hai detto bene, questo è solo un assaggio con cui spero di avere acceso la tua curiosità. Come per ogni argomento di ricerca, le questioni tecniche sono tante e intricatissime. Cercherò di dissenzionarle una ad una in futuro, anche perché voglio vederci meglio pure io. Sono poi curioso di sapere come si evolverà il campo nei prossimi dieci anni, e di come questa ipotesi dei buchi bianchi andrà a stimolare discussioni sulla natura della freccia del Tempo.


PS. ho scritto un libro di testo che rappresenta proprio ciò che avrei desiderato leggere all’inizio dei miei studi di Fisica teorica, per renderla accessibile agli amatori e insegnare le tecniche matematiche necessarie a una sua comprensione universitaria. Si chiama “L’apprendista teorico” , dai un’occhiata per vedere di cosa si tratta. Il libro è acquistabile su Amazon.

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Matteo Parriciatu

Dopo la laurea in Fisica (2020) e la specializzazione in Fisica Teorica (2023) all’Università di Pisa, studia simmetrie di sapore dei leptoni e teorie oltre il Modello Standard, interessandosi anche di Relatività Generale.

È autore del libro “L’apprendista teorico” (2021).

“E questa…chi l’ha ordinata?” La particella che contribuì a verificare la Relatività

A cavallo degli anni ’30 del secolo scorso, la fisica delle particelle si trovava in una fase di rapida evoluzione:

Insomma, questa timeline poteva far pensare che stessimo avanzando a passo spedito verso una comprensione delle interazioni nucleari (oggi note come interazioni forti). Perciò è facile comprendere l’esclamazione iconica del fisico Isidor Rabi quando si concluse che la nuova particella scoperta da Carl Anderson e Seth Neddermeyer nel 1936 (che oggi sappiamo essere il muone) non partecipava alle interazioni nucleari forti, cioè non era il pione teorizzato da Yukawa, ma era anzi un “cugino più ciccione” dell’elettrone:

E questa…chi l’ha ordinata?

I.I. Rabi (premio Nobel 1944)

Chi ha ordinato un cugino più ciccione dell’elettrone? In gergo da fisici significa: questa particella non ci aiuta ad avanzare le nostre comprensioni del nucleo dato che non sente l’interazione forte, quindi a che pro la sua esistenza? Che cosa ce ne facciamo di un elettrone più massiccio? E inoltre, perché è tipo 200 volte più massiccio dell’elettrone, ma ha uguale carica elettrica e spin?

La massa del muone è circa 200 volte quella dell’elettrone, ma hanno stesso spin e carica elettrica.

È vero, è vero, la scienza non si occupa dei “perché”, ma cerca di sfruttare ogni scoperta al fine di migliorare la condizione sociale e culturale dell’umanità.

In questo senso, la scoperta del muone ha avuto una grande importanza non solo per la fisica delle particelle, ma anche per una delle prime verifiche della celebre dilatazione temporale prevista dalla Relatività Ristretta. In questa verifica c’è un pezzo di Italia: il fisico veneziano Bruno Rossi.

L’ innovazione di Bruno Rossi 

Nell’anno della scoperta del muone, Bruno Rossi insegnava fisica sperimentale a Padova, ed era già un nome affermato nel campo della fisica dei raggi cosmici. Questi ultimi venivano osservati da un paio di decenni e consistevano in particelle cariche ionizzanti che si formavano nell’atmosfera, a causa (come si scoprì) dell’impatto tra gli atomi atmosferici e particelle altamente energetiche (principalmente protoni) provenienti dalle profondità del cosmo. Fu proprio da queste collisioni che venne scoperto il muone. 

Un giovane Bruno Rossi (sinistra) con Enrico Fermi, al primo congresso internazionale di fisica nucleare di Roma. 

Rossi era riservato, mite e profondamente artistico (era un grande ammiratore di Dante Alighieri), ed era descritto dai suoi colleghi come una personalità “complessa, un po’ da poeta e un po’ da scienziato”. Gli fu sottratto il posto da insegnante nel 1938 per via delle leggi razziali italiane, e fu quindi costretto ad emigrare. Dopo un soggiorno a Manchester, si trasferì definitivamente negli Stati Uniti su invito dell’università di Chicago per la partecipazione a un simposio proprio sul muone, la nuova particella. 

Rossi aveva grande manualità nella costruzione di circuiti in grado di rivelare il passaggio di queste particelle, tant’è che alcune sue invenzioni sono poi diventate lo standard nel campo della fisica dei rivelatori. Dopo il simposio di Chicago, si occupò di dimostrare che il muone è una particella instabile, e riuscì a inferire che il suo tempo medio di decadimento doveva essere di circa 2 microsecondi. Questa fu la prima dimostrazione sperimentale del decadimento di una particella sub-nucleare. 

È molto probabile che, mentre stai leggendo, alcuni muoni derivanti dai raggi cosmici ti stiano attraversando dall’alto verso il basso.

La dilatazione dei tempi

Il punto fondamentale è che questo tempo medio di decadimento del muone è riferito rispetto al sistema di riposo della particella.

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Il ragionamento è questo: le particelle non amano stare ferme, questi muoni sono prodotti in collisioni nell’alta atmosfera, dopodiché si dirigono a grande velocità verso il suolo terrestre. Se ci mettiamo in un sistema di riferimento solidale a un muone (cioè ci muoviamo nella sua stessa direzione e con la sua stessa velocità in modo che, rispetto a noi, risulti fermo), e cronometriamo dal momento in cui è prodotto al momento in cui decade, il tempo che passerà ammonta a circa 2 microsecondi, come è possibile calcolare con la teoria di Fermi dell’interazione debole.

La velocità dei muoni è una frazione apprezzabile della velocità della luce, per cui diventa apprezzabile la natura interconnessa tra spazio e tempo prevista dalla relatività speciale di Einstein. Prendiamo due eventi temporali che accadono nello stesso punto dello spazio, la distanza temporale la chiamiamo \Delta \tau. Gli stessi eventi temporali, visti ora da qualcuno che si muove a velocità v rispetto a prima, sono invece distanziati temporalmente di una quantità \Delta t relazionata a \Delta \tau secondo la celebre formula:

dove c è la velocità della luce. Vediamo che per v\to c il denominatore approccia zero, e dunque \Delta t cresce molto: si ha una dilatazione dei tempi dal punto di vista dell’osservatore che vede i due eventi verificarsi in punti diversi dello spazio (per via del suo moto relativo). Questo è il contenuto teorico della relatività ristretta: a basse velocità v\to 0 rispetto alla velocità della luce, si ha approssimativamente che \Delta t\approx \Delta \tau, cioè il tempo ha la stessa durata per tutti, come siamo abituati nella nostra quotidianità.

Sinistra: grazie alla dilatazione dei tempi, siamo in grado di rivelare i muoni. Destra: se non ci fosse la dilatazione dei tempi, i muoni decadrebbero dopo 600 metri.

L’ esperimento di Rossi e Hall

Nel caso dei muoni, gli eventi “creazione” e “decadimento” del muone avvengono nello stesso punto dello spazio dal punto di vista del muone (secondo il muone, siamo noi a muoverci mentre lui è fermo nel suo sistema di riferimento). Se non esistesse la relatività speciale e il tempo di decadimento del muone fosse quello a riposo, li vedremmo decadere dopo aver percorso solo circa 600-700 metri.

    \[L\approx \underbrace{(0.9\cdot c)}_\text{velocità}\times (2.2*10^{-6})\text{ s}\approx 600\,\text{m}\]

Dato che i muoni vengono prodotti dalle collisioni dei raggi cosmici con l’atmosfera a circa 15 km di altezza rispetto al livello del mare, ciò significherebbe che non saremmo in grado di rivelarli neanche nelle cime montuose più alte del pianeta: decadrebbero ben prima!

Grazie ai suoi apparecchi sperimentali, nel 1940 Rossi riuscì a verificare la seguente relazione tra distanza percorsa L dei muoni e la loro energia E:

m_\mu è la massa del muone, \Delta \tau è il suo tempo di decadimento a riposo, pari a circa 2 microsecondi.

la quale discende direttamente dalle formule della relatività ristretta. Bastava quindi verificare che il rapporto tra distanza percorsa ed energia dei muoni doveva essere una costante pari a \Delta \tau/(m_\mu c). Rossi e Hall eseguirono l’esperimento sia a Echo Lake (3240 metri) che a Denver (1616 metri) in Colorado, e la verifica ebbe successo!

I muoni riuscivano a raggiungere altitudini così basse grazie alla dilatazione temporale: rispetto a noi, il loro tempo di decadimento è più lungo, dunque percorrono una distanza maggiore prima di decadere.

Quindi, 35 anni dopo la sua formulazione, nel 1940 la Relatività Ristretta superò uno dei primissimi test di validità, e tale test riguardava proprio uno degli aspetti più controversi: la dilatazione temporale. Ciò non sarebbe stato possibile senza l’ausilio dei raggi cosmici (che mettono a disposizione una quantità generosa di particelle con cui far “giocare” i fisici) e l’expertise di Rossi e gli altri fisici delle astroparticelle dell’epoca.

La precisione con cui Rossi e i suoi collaboratori riuscirono ad estrarre i parametri dei muoni è lodevole, nonostante fossero esperimenti condotti agli albori dell’elettronica dei rivelatori. Oggi un rivelatore di muoni può essere costruito anche a casa, ad un costo non troppo distante dai 100€, come illustrato qui: http://cosmicwatch.lns.mit.edu/detector#cosmicwatch.


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Matteo Parriciatu

Dopo la laurea in Fisica (2020) e la specializzazione in Fisica Teorica (2023) all’Università di Pisa, studia simmetrie di sapore dei leptoni e teorie oltre il Modello Standard, interessandosi anche di Relatività Generale.

È autore del libro “L’apprendista teorico” (2021).

Quark: uno sguardo sulla Cromo-Dinamica Quantistica

Si sa: più si cerca di semplificare la fisica, più è probabile incappare in incomprensioni e confusione. È quello che nello slang degli economisti si chiama “trade off” : il nostro trade off è che acquisiamo intuizione, ma sacrifichiamo la precisione.
Nella fisica delle particelle la teoria dei Quark (QCD) è la teoria più complessa mai concepita, ma anche una delle più testate sperimentalmente. Divulgare questa teoria è sempre una grande sfida perché è una bestia difficile da addomesticare e si rischia sempre di risultare imprecisi o completamente in errore.

Le interazioni tra i tre quark all’interno di un neutrone.
[Qashqaiilove, Wikimedia Commons]
La realtà è che c'è ben poco di intuitivo nella QCD. Tuttavia ci sono delle circostanze in cui possiamo connettere alcuni concetti con dei fatti di cui abbiamo già familiarità e intuizione nella meccanica classica. 

I Quark sono (per quanto ne sappiamo oggi) i costituenti più fondamentali della materia, conferendo una struttura ben precisa agli elementi del nucleo come protoni e neutroni (i quali sono composti ciascuno da tre quark).
Nonostante ciò è molto difficile intuire che protoni e neutroni siano composti da Quark! Infatti se ne osservano gli effetti solo a distanze sub-nucleari (o equivalentemente, ad energie sufficientemente elevate). Questa conversione tra energia e distanza è molto utile per capirsi nei discorsi che si fanno in questo campo di ricerca: dipende dal principio di indeterminazione moltiplicato per la velocità della luce:

    \[\Delta R \underbrace{\Delta p c}_{\Delta E}\sim \hbar c\]

il quale fornisce un ottimo modo per convertire da distanze \Delta R ad energia E=pc per particelle molto energetiche. La costante fondamentale \hbar c ha un valore preciso, ed è il fattore di conversione tra distanza ed energia. Invertendo la formula

    \[\Delta R\sim \frac{\hbar c}{\Delta E}\]

ne deduciamo che grandi energie corrispondono a piccole distanze, e viceversa. Tieni a mente questa informazione perchè sarà cruciale nel discorso che andremo a fare.

Tra le quattro forze fondamentali (clicca qui per un breve riassunto), i Quark interagiscono tramite l’interazione forte. Il nome non lascia spazio all’immaginazione: a parità di distanza tra due particelle ad esempio la distanza subnucleare, l’interazione forte è 100 volte più intensa di quella elettromagnetica (che a sua volta è molto più intensa della forza debole e della debolissima forza gravitazionale) il che la rende la forza più intensa in Natura.

Così come i fotoni sono i mediatori dell’interazione elettromagnetica, i gluoni (anch’essi senza massa), sono i mediatori dell’interazione forte. Tuttavia i gluoni sono delle bestioline piuttosto difficili rispetto ai fotoni.

Cominciamo dalle similitudini: avendo massa nulla, anche i gluoni si muovono alla velocità della luce.
Così come i fotoni interagiscono solo tra corpi carichi elettricamente, i gluoni interagiscono solo con particelle dotate di una speciale carica: la carica di colore. Al contrario della carica elettrica, la carica di colore è molto meno intuitiva e quantificabile, e rappresenta le “coordinate” di uno spazio astratto che caratterizza lo stato quantistico di un quark.

Se vuoi, questa carica di colore è un’estensione multidimensionale dei due stati di spin (in questo articolo viene discusso il primo esempio di isospin nucleare nella teoria di Heisenberg). Anche se non è detto che questa cosa ti sia d’aiuto, dato che neanche lo spin è intuitivo! (Vedi questo articolo per approfondire).

I fotoni interagiscono molto poco con gli altri fotoni: se fatti scontrare tra loro hanno una grande probabilità di “passarsi attraverso”. Solo a determinate scale di energia più elevate l’interazione fotone-fotone diventa non più trascurabile. Questo fatto favorisce la validità del principio di sovrapposizione delle onde elettromagnetiche, tanto caro all’ingegneria.

I gluoni, d’altra parte, interagiscono con gli altri gluoni anche a scale di energia più basse, accoppiandosi nei modi più disparati possibili. La teoria dell’interazione forte quindi non rispetta il principio di sovrapposizione: c’è ben poco di lineare e semplice nei campi gluonici.

Analogie e differenze tra interazione elettromagnetica e interazione forte.
Entrambi i mediatori hanno massa nulla e si muovono quindi alla velocità della luce.

Le stranezze della forza forte non finiscono qui. Come specificato nell’immagine precedente, l’interazione elettromagnetica ha un range infinito: due cariche elettriche non smettono mai di sentire l’una la presenza dell’altra, indipendentemente dalla distanza che le separa! È l’intensità quella che varia e diminuisce con l’aumentare della separazione.
Succede lo stesso con la gravità (in tal caso la carica elettrica viene sostituita dalla massa). Il potenziale gravitazionale di una massa m posta a distanza r da una sorgente gravitazionale fissa e di massa M è proporzionale a:

    \[V_{\text{gravità}}\propto -\frac{mM}{r}\]

Il grafico della funzione ha il seguente aspetto:

Analogamente, il potenziale elettrostatico di Coulomb percepito da una carica elettrica q nel campo di una carica Q è

    \[V_{\text{e.m.}}\propto -\frac{qQ}{r}\]

Queste funzioni di r ci dicono la stessa cosa: l’interazione diminuisce all’aumentare della distanza. Dal punto di vista della fisica teorica è equivalente a dire che le interazioni diventano via via più deboli al diminuire della scala di energia, e per energie alte (cioè piccole distanze) diventano sempre più intense. Con “scala di energia” intendiamo il contenuto energetico che dobbiamo fornire al nostro esperimento per far scontrare le particelle nel nostro acceleratore.

Tutto ciò è abbastanza intuitivo: se si gioca con i poli dei geomag ci si rende presto conto che è molto difficile resistere all’attrazione di due poli opposti una volta che li si avvicina abbastanza, mentre è molto difficile avvicinare due poli uguali (in particolare più li si avvicina e più diventa difficile). Il magnetismo, naturalmente, fa parte dell’interazione elettromagnetica e si comporta proprio come ci aspettiamo.

L’interazione forte percepita dai quark è molto più controintuitiva: più i Quark sono vicini tra loro e più “si ignorano”, cioè comunicano molto meno, ovvero l’interazione è meno intensa (tutto il contrario delle interazioni a cui siamo abituati!). A questo fatto è stato dato il nome di libertà asintotica: alle alte energie i Quark si comportano come se fossero liberi. D’altra parte se allontaniamo i Quark (quindi abbassiamo la scala di energia) questi interagiscono molto di più tra loro: è la schiavitù infrarossa.

Sulla libertà asintotica Parisi è stato vicinissmo a vincere il Nobel già quando aveva 25 anni. Gli mancava solo intuire che il numero quantico giusto per descrivere l’interazione era la “carica di colore”.

Le peculiarità dei Quark

Ad oggi conosciamo 6 Quark fondamentali (cioè che non derivano da stati legati con altri Quark) a cui sono stati assegnati dei nomi precisi e di cui si conosce la massa, dal più leggero al più pesante.

I Quark up e down costituiscono la struttura interna di protoni e neutroni (nucleoni), tuttavia le loro masse contribuiscono solo a una piccola parte della massa dei nucleoni. La maggior parte della massa deriva invece dalle intricatissime interazioni e scambi energetici tra i Quark stessi, i quali comunicano incessantemente tramite gluoni.

Un’illustrazione molto schematica di quello che succede all’interno di un protone. Gli oggetti “a forma di molla” rappresentano le interazioni di scambio di gluoni.

Detto in maniera molto semplificata e fiabesca, è come se la carica di colore dei Quark accendesse la scintilla che fa scoccare un “incendio energetico” nel campo gluonico che li circonda. Questo incendio “brucia incessantemente” con un’energia E che dà luogo alla maggior parte della massa del protone tramite la celebre E=mc^2.

È sfruttando questo inferno energetico che siamo stati in grado di creare i Quark più pesanti del up e down, facendo scontrare protoni ad altissime energie che hanno rilasciato come prodotto i Quark più pesanti come il top (l’ultimo ad essere stato scoperto, nel 1995 al Fermilab di Chicago).

Dal punto di vista teorico, le complicate interazioni tra i Quark sono una conseguenza della natura relativistica delle teorie quantistiche di campo. Uno può aspettarsi che la descrizione di queste forze diventi leggermente più semplice se usciamo dal regime relativistico (cioè se consideriamo particelle abbastanza pesanti che si muovono a velocità molto più basse di quella della luce).

A noi piace tanto semplificare, quindi questo è quello che faremo! Consideriamo alcuni Quark più ciccioni, ad esempio il bottom e il charm: un sistema molto semplice da studiare in QCD è lo stato legato di quarkonio, il quale è uno stato legato tra Quark e antiQuark. Stiamo quindi parlando, nel nostro caso, dei seguenti sistemi:

  • Charmonium: stato legato di Charm e anti-Charm
  • Bottomonium: stato legato di Bottom e anti-Bottom
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Per completezza ricordiamo che un anti-Quark è la anti-particella del Quark corrispondente: ha uguale massa e numeri quantici tutti invertiti, cioè carica elettrica, carica di colore, spin etc. invertiti.

Siccome questi due Quark sono abbastanza massivi, si muvono a velocità più basse rispetto a tutti gli altri, quindi è possibile una trattazione non-relativistica in cui possiamo ignorare i discorsi di Einstein. Stiamo parlando di un’approssimazione.

Questi stati legati sono stati osservati sperimentalmente, dunque i discorsi matematici che seguono, seppur non rigorosissimi dal punto di vista teorico, sono empiricamente verificati.

Il potenziale di Quarkonio

Se r è la distanza che separa Quark e anti-Quark, l’energia potenziale di interazione è data dall’espressione (in cui a e b sono delle costanti di cui non devi preoccuparti)

    \[V_\text{quarkonio}= -\frac{a}{r}+br\]

ed ha il seguente grafico:

A piccole distanze l’interazione si comporta in modo del tutto simile a quella gravitazionale ed elettromagnetica: va giù come 1/r. Non farti però ingannare! A distanze piccolissime (cioè energie elevatissime) questo potenziale non è più una buona approssimazione di quello che sta succedendo, perché entrano in gioco gli effetti relativistici della forza forte, e la conseguenza è la libertà asintotica: invece di continuare ad aumentare infinitamente, ad altissime energie l’interazione forte inizia a indebolirsi sempre più, fino a che i Quark si ignorano del tutto.

[Nota bene: quando diciamo “piccole” o “grandi” distanze ci stiamo riferendo a qualcosa di grande o piccolo rispetto alle dimensioni subnucleari!]

D’altra parte, a grandi distanze il potenziale aumenta invece che diminuire (contrariamente a quanto succede nell’interazione gravitazionale ed elettromagnetica). Il fattore che domina questa peculiarità è parametrizzato dal termine b\,r dove b è una costante e r è la distanza. Questo termine ingloba tutto ciò che ci è difficile conoscere del regime di “schiavitù infrarossa”, regime che può essere studiato solo tramite ingegnose simulazioni al computer (campo di studi noto come QCD su reticolo).

Per capire di che tipo di forza si tratta dal punto di vista della meccanica classica, consideriamo un potentiale molto simile: quello di una molla! Se allunghiamo o accorciamo una molla di una distanza r, il potenziale ha la seguente forma:

    \[V_{\text{molla}}=\frac{1}{2}kr^2\]

dove k è la costante elastica. Confrontiamo ora la forma dei due potenziali nel regime di schiavitù infrarossa (cioè a distanze molto grandi in modo che il termine 1/r risulti trascurabile):

Un tipico eleastico.

Stiamo cioè confrontando una retta con una parabola: entro una certa distanza l’interazione di Quarkonio è più intensa di quella che si avrebbe se fosse puramente elastica, mentre superata una certa soglia, l’interazione elastica diventa più elevata. Quindi lo stato legato di Quarkonio a basse energie ha un’intensità che somiglia un po’ a qualcosa che richiama l’interazione elastica tra due corpi. Tuttavia, a differenza della molla, dal punto di vista classico la forza F=ma non dipende dalla distanza, mentre nella molla vi dipende come F=-kx.

D’accordo, magari la molla non è un’approssimazione ottimale, ma è comunque un buon punto di partenza. In realtà è possibile dimostrare che l’andamento della forza di Quarkonio è molto più simile a quella caratteristica degli elastici! Se prendi un elastico per capelli e lo allunghi di una distanza L, l’energia potentiale di richiamo che stai accumulando risulta proporzionale alla distanza L, esattamente come l’energia potenziale del Quarkonio a grandi distanze!


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Matteo Parriciatu

Dopo la laurea in Fisica (2020) e la specializzazione in Fisica Teorica (2023) all’Università di Pisa, studia simmetrie di sapore dei leptoni e teorie oltre il Modello Standard, interessandosi anche di Relatività Generale.

È autore del libro “L’apprendista teorico” (2021).

Pontecorvo, il fisico italiano a cui negarono il Nobel

Bruno Pontecorvo (Marina di Pisa 1913- Dubna 1993).

La storia della scienza è cosparsa di scandali riguardanti la negazione di premi importanti a scienziati meritevoli per le più disparate ragioni.

Nel caso di Bruno Pontecorvo (a cui fu negato il Nobel per la Fisica del 1988) le ragioni erano prettamente politiche. In questo articolo dimostriamo perché questo debba ancora oggi risuonare come un vero e proprio scandalo scientifico.

Il “cucciolo” di via Panisperna

Nato a Marina di Pisa nel 1913, Bruno era una persona timida e la sua natura si distingueva da quella degli altri componenti dei gruppi di ricerca poiché, oltre a mostrare grandi doti come fisico sperimentale e teorico, era evidente in lui il profilo di abile fenomenologo, ossia una grande capacità di approfondire applicazioni e ipotesi di lavoro [1].

“A questa opinione soprattutto, io credo, devo la mia timidezza, un complesso di inferiorità che ha pesato su di me per quasi tutta la vita” 

Bruno Pontecorvo

Pontecorvo si riferiva alla seguente opinione che secondo lui i suoi genitori avevano sui loro figli: “il fratello Guido era considerato il più intelligente, Paolo il più serio, Giuliana la più colta e lui, Bruno, il più buono ma il più limitato, come dimostravano i suoi occhi, buoni ma non intelligenti.

Si può dire che Pontecorvo usufruì dell’istruzione universitaria più eccellente che ci fosse: fu ammesso al corso di Fisica sotto la guida di Enrico Fermi e Franco Rasetti nel 1931, all’età di 18 anni, entrando di diritto nel celebre gruppo dei ragazzi di via Panisperna (fu soprannominato “il cucciolo” per la sua giovane età).

Collaborò quindi alla ricerca sul bombardamento dei nuclei usando neutroni come proiettili, e nel 1934 si accorse assieme ad Edoardo Amaldi che la radioattività indotta da bombardamento di neutroni era circa cento volte più intensa se i neutroni attraversavano prima un filtro di paraffina (Fermi spiegò che questo era per via dell’idrogeno contenuto nel materiale, il cui effetto rallentava i neutroni, aumentando la loro efficacia nel bombardamento). Questa scoperta segnò uno step epocale per la ricerca sull’energia nucleare e valse il Nobel del 1938 ad Enrico Fermi, che ne spiegò il funzionamento.

Dopo il periodo romano, la sua vita fu molto movimentata e ricca di eventi di interesse storico (ricordiamo che Pontecorvo era ebreo).

  • Nel 1936 grazie a una raccomandazione di Fermi, collaborò a Parigi con Frédéric e Irène Joliot-Curie (rispettivamente genero e figlia di Pierre e Marie Curie e vincitori nel 1935 del premio Nobel per la scoperta della radioattività artificiale). Fu nell’effervescente ambiente parigino che iniziò a interessarsi di politica. In particolare si iscrisse al PCI nel 1939.
  • Dopo l’invasione della Francia da parte dei tedeschi, Pontecorvo scappò da Parigi in bicicletta e con un rocambolesco viaggio fatto di varie tappe in treno, raggiunse Lisbona. Da qui si imbarcò per gli Stati Uniti.
  • Nei primi anni ’40 lavorò per una compagnia petrolifera in Oklahoma, dove viveva con la famiglia. Qui applicò per la prima volta la tecnica dei neutroni lenti scoperta dai ragazzi di via Panisperna e inventò la tecnica del “carotaggio neutronico dei pozzi di petrolio“.
  • Nel 1943 si trasferì in Canada per lavorare in un laboratorio che si occupava di raggi cosmici. Fu qui che iniziò il suo studio dei neutrini alle alte energie.
  • Dopo aver lavorato in inghilterra, scappò in Russia con la famiglia nell’estate del 1950 senza avvertire nessuno. Per superare la cortina di ferro i Pontecorvo si divisero: moglie e figli su un’automobile, Bruno nascosto nel bagagliaio di un’altra. 
    Nell’URSS continuò le sue importanti ricerche di fisica delle particelle in un laboratorio di Dubna.

Cosa si capiva, all’epoca, dei neutrini

Per poter dire che “capiamo” tutto di una particella dobbiamo essere in grado di affermare quali siano i suoi numeri quantici, e di solito ci si concentra su questi tre:

  • Carica elettrica
  • Spin
  • Massa

Dei neutrini conosciamo con precisione solo i primi due: sono elettricamente neutri (infatti non interagiscono con la forza elettromagnetica) ed hanno spin 1/2, mentre sorprendentemente non sappiamo ancora con precisione il valore della loro massa. Sappiamo solo che non può essere più grande di un numero molto piccolo, per via delle evidenze sperimentali. All’epoca di Pontecorvo si supponeva che non avessero massa.

Dallo studio dei raggi cosmici (ed in particolare del decadimento del muone) Pontecorvo iniziò a intuire una similitudine tra quanto osservato e una teoria del suo vecchio Maestro: la teoria del decadimento \beta di Enrico Fermi (clicca qui se vuoi saperne di più). In una lettera a Giancarlo Wick del 1947 scrisse:

Deep River, 8 maggio 1947

Caro Giancarlo (…) se ne deduce una similarità tra processi beta e processi di assorbimento ed emissione di muoni, che, assumendo non si tratti di una coincidenza, sembra di carattere fondamentale.

Bruno Pontecorvo

La scoperta di questa analogia fu uno degli step fondamentali che condusse all’introduzione di una nuova forza della natura: la teoria di Fermi passò dall’essere una semplice teoria fenomenologica ad una interazione fondamentale che si andava a sommare alle due già esistenti all’epoca: gravità ed elettromagnetismo.

La questione del neutrino rimaneva invece un vero mistero, specialmente la questione se avesse una massa o meno.
È di fondamentale importanza riuscire a determinare la massa di una particella. Nel Modello Standard la massa è spesso l’unico numero quantico che permette di distinguere tra due particelle che hanno gli altri numeri quantici uguali.

Ad esempio il muone e l’elettrone sono due particelle elementari con la stessa carica elettrica e lo stesso spin, ma il muone è circa 200 volte più pesante dell’elettrone ed è proprio ciò che ci permette di distinguerli nella maggior parte dei casi. Allo stesso modo il tau è la terza “sorella” di muone ed elettrone (fu scoperta nel 1975), in quanto ha stessa carica e stesso spin, ma massa pari a circa 18 volte quella del muone.
Queste tre particelle furono raggruppate in un trio chiamato “leptoni carichi”.

Elettrone, Muone e Tau: le tre particelle “sorelle” del Modello Standard costituiscono la famiglia dei leptoni carichi.

Per spiegare i risultati sperimentali degli anni ’30 e ’50, si associò a ciascun leptone carico (elettrone, muone e tau) un neutrino di tipo corrispondente. Infatti si dimostrò che in ciascun processo di interazione debole di un leptone carico compariva sempre un neutrino, di conseguenza:

  • All’elettrone venne associato un neutrino-elettronico: \nu_e
  • Al muone venne associato un neutrino-muonico: \nu_\mu
  • Al tau venne associato un neutrino-tau: \nu_\tau

Quindi anche i neutrini sono considerati dei leptoni, solo che hanno carica elettrica nulla. Assieme ai leptoni carichi costituiscono i 6 leptoni del Modello Standard.

Fu proprio Bruno Pontecorvo a suggerire questo raggruppamento in famiglie di “sapore”: sapore elettronico, sapore muonico e sapore tauonico. Ipotizzò questa teoria già nel 1947, ma la pubblicò con una dimostrazione rigorosa solo nel 1957.

La distinzione tra leptoni carichi e leptoni neutrini. Nell’immagine i leptoni dello stesso colore appartengono allo stesso “sapore”.

La cosa importante da capire è che siamo in grado di distinguere un neutrino \nu_e da un neutrino \nu_\mu o da un neutrino \nu_\tau: basta guardare qual è il leptone carico coinvolto nelle interazioni (rare) di questi neutrini!

Il modo in cui siamo in grado di dire quale dei tre neutrini stiamo considerando: basta guardare i leptoni carichi che escono fuori dalle interazioni del neutrino con la materia.

In questo senso si parla di conservazione del sapore leptonico: un neutrino di sapore “muonico” è sempre associato, in un’interazione debole, a un muone. Se c’era un sapore elettronico all’inizio, dovrà esserci un sapore elettronico anche alla fine.

Purtroppo, l’acceleratore di particelle di Dubna non era abbastanza potente per verificare le teorie di Pontecorvo sul sapore leptonico. Soltanto pochi anni dopo, agli inizi degli anni Sessanta, gli americani Leon Ledermann, Melvin Schwartz e Jack Steinberger confermarono sperimentalmente le ipotesi del fisico italiano.


Questa scoperta valse ai tre fisici il premio Nobel per la Fisica nel 1988 per “il metodo del fascio di neutrini e la dimostrazione della struttura doppia dei leptoni attraverso la scoperta del neutrino muone”, suscitando lo scalpore di una parte della comunità scientifica internazionale per l’esclusione del fisico teorico italiano che per primo effettuò la previsione parecchi anni prima.

Le oscillazioni di sapore

Pontecorvo continuò il suo studio pionieristico dei neutrini e, in collaborazione con il fisico teorico Vladimir Gribov, nel 1969 presenta in dettaglio il formalismo matematico della teoria delle oscillazioni, che fu proposto come soluzione al problema dei neutrini solari sorto negli esperimenti del 1968.
Pontecorvo sosteneva che i neutrini dovessero avere una massa, seppur piccola, e che questo fosse la spiegazione per il problema dei neutrini solari.

La spiegazione di Pontecorvo si rivelò corretta: alla fine del secolo scorso si scoprì che i neutrini sono in grado di cambiare sapore leptonico durante il loro viaggio tra due punti dello spazio, e fu proprio questo fatto ad evidenziare che i neutrini dovevano avere una massa: senza una massa non è possibile questa oscillazione tra sapori!

Ciò che stupisce è che rispetto alle altre particelle i neutrini hanno una massa così piccola che è difficile da misurare.
Gli esperimenti ci consentono solo di porre dei limiti superiori sempre più piccoli. Per dare un’idea, l’elettrone ha una massa di mezzo milione di elettronvolt, mentre si stima che quella dei neutrini sia inferiore a un solo elettronvolt. Se l’elettrone è considerato la particella carica più leggera del Modello Standard, i neutrini sono davvero dei pesi piuma.

L’oscillazione rompe la conservazione del sapore leptonico!

Ad esempio da un processo debole che coinvolge un elettrone (rivelabile) sappiamo che sbucherà fuori un \nu_e, il quale, dopo una certa distanza, si tramuterà in un \nu_\mu, il quale interagirà facendo comparire un muone, che sarà a sua volta rivelabile e ci permetterà di dire che questa oscillazione è effettivamente avvenuta!

Per spiegare questo effetto vengono introdotti gli “stati di massa” dei neutrini, chiamati \nu_1,\nu_2,\nu_3 a cui vengono associate le masse m_1,m_2,m_3. Ciascun stato di massa “contiene” al suo interno i tre sapori dei neutrini \nu_e,\nu_\mu,\nu_\tau in proporzioni che possono essere studiate sperimentalmente.
Graficamente abbiamo quindi tre neutrini ciascuno contenente al suo interno il mixing di sapori:

Gli autostati di massa dei neutrini con al loro interno i mixing dei sapori.
Celeste: \nu_e, Marroncino: \nu_\mu, Grigio: \nu_\tau.

Questo mixing avviene nel senso quanto-meccanico di sovrapposizione di stati: ciascuno stato di massa è una sovrapposizione delle funzioni d’onda dei sapori leptonici e,\mu,\tau.

Ad esempio dalla figura leggiamo che sperimentalmente è stato verificato che lo stato \nu_1 contiene per la maggior parte il sapore elettronico \nu_e (indicato in blu), mentre il sapore tau \nu_\tau è presente solo in minima parte.

Essendo tutto ciò un effetto quanto-meccanico, a ogni oscillazione tra sapori è associata una certa probabilità che sarà tanto più elevata quanto più grande è il mixing tra sapori negli stati di massa. Questa probabilità è verificabile sperimentalmente: basta chiedersi “se nel punto di partenza ho N neutrini di tipo \nu_e, quanti neutrini di tipo \nu_\mu mi ritroverò a una certa distanza dal punto di partenza?”

Ad esempio la probabilità che un neutrino \nu_e si trasformi in un neutrino \nu_\mu è data dalla seguente formula:

Vengono chiamate “oscillazioni” perché la probabilità dipende da un seno al quadrato, il quale rappresenta graficamente un’oscillazione nelle variabili L,E,\Delta m^2.

in cui \theta è un parametro del Modello Standard che è stato misurato sperimentalmente (e definisce il grado di mixing dei due sapori in questo caso). D’altra parte \Delta m^2=m_2^2-m_1^2 riguarda la differenza tra i quadrati delle masse di \nu_2 e \nu_1, mentre L è la distanza a cui hanno viaggiato i neutrini prima di essere rivelati, ed E è la loro energia.
Nota bene che se questi neutrini avessero la stessa massa, e cioè \Delta m^2=0, non si potrebbero avere oscillazioni (la probabilità sarebbe nulla perché il seno di zero fa zero).

Ad esempio è molto più probabile che un \nu_e si trasformi in un \nu_\mu quando l’argomento del seno è vicino al punto in cui il seno ha un massimo, e cioè in prossimità di 90^{\circ} (o in radianti pi/2), e cioè quando

Da questa formula è possibile capire a che valore del rapporto L/E si è più sensibili per rivelare un’oscillazione da \nu_e in \nu_\mu. Si può quindi ottenere una stima di \Delta m^2.
Se ti interessa la Fisica, iscriviti alla newsletter mensile! Ho pensato di scrivere una guida-concettuale di orientamento per aiutarti a capire da dove studiare.

Studiando l’andamento dell’oscillazione con L/E si può quindi ricavare \Delta m^2 proprio da questa formula.

La differenza tra le masse dei neutrini \nu_2 e \nu_1 è minuscola, ma comunque calcolabile dai dati sperimentali. Allo stesso modo è stata calcolata la differenza tra le masse quadre di \nu_3 e \nu_2, e da ciò si può ricavare la differenza tra le masse quadre di \nu_3 e \nu_1.
Conosciamo solo queste \Delta m^2, ma non i valori singoli di m_3,m_2,m_1, che frustrazione, eh?

Misurando il numero di eventi di neutrini di un certo sapore ad alcuni valori del rapporto L/E si possono ricavare i valori sperimentali di \theta e \Delta m^2. Questo è proprio ciò che si fa da qualche decina di anni: la teoria delle oscillazioni è verificata con un alto grado di accuratezza.

I Nobel dei neutrini

La Fisica dei neutrini inaugurata da Pontecorvo ha portato a ben quattro premi Nobel, ma nessuno è stato vinto da lui. Tre di questi furono però assegnati solo dopo la morte di Pontecorvo (1993), il più recente risale al 2015. L’unico che sarebbe doveroso reclamare per la memoria del fisico teorico italiano sarebbe quello del 1988, inspiegabilmente assegnato ad altri se non per questioni politiche.

Pontecorvo rimane uno dei fisici con il numero di previsioni azzeccate più alto e allo stesso tempo un numero di riconoscimenti piuttosto irrisorio (vinse comunque il premio Lenin nel 1963).

Ciò che fa restare stupiti è la precocità delle sue idee: il campo dei neutrini è particolarmente infelice perché essendo questi così poco interagenti, la loro rivelazione può aversi solo grazie a esperimenti particolarmente costosi e avanzati, spesso traslati di almeno 30-40 anni nel futuro rispetto alla loro teorizzazione. Pontecorvo elaborò negli anni ’60 quasi tutta la fisica dei neutrini che utilizziamo ancora oggi e che ha trovato conferma solo negli ultimi 30 anni.

Se mai inventassero un Nobel postumo, uno dei primi a riceverlo dovrebbe essere Pontecorvo.
[1] Fonte principale: “Il fisico del neutrino”- Jacopo De Tullio.


PS. ho scritto un libro di testo che rappresenta proprio ciò che avrei desiderato leggere all’inizio dei miei studi di Fisica teorica, per renderla accessibile agli amatori e insegnare le tecniche matematiche necessarie a una sua comprensione universitaria. Si chiama “L’apprendista teorico” , dai un’occhiata per vedere di cosa si tratta. Il libro è acquistabile su Amazon.

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Matteo Parriciatu

Dopo la laurea in Fisica (2020) e la laurea specialistica in Fisica Teorica (2023) all’Università di Pisa, studia simmetrie di sapore dei leptoni e teorie oltre il Modello Standard, interessandosi anche di Relatività Generale.

È autore del libro “L’apprendista teorico” (2021).

L’intrigante “carattere discriminatorio” del bosone di Higgs

Immagina di reincarnarti in una particella elementare in un istante tra i 10^{-36} e i 10^{-12} secondi dopo il Big Bang.

L’universo ha un aspetto molto diverso da quello odierno, c’è tantissima confusione, un viavai di interazioni, come un vociare assordante.
La sensazione che provi è molto singolare, sei capace di individuare solo il momento in cui “appari” e il momento in cui “scompari”, ma nemmeno riesci a distinguere l’uno o dall’altro. Il problema è che ti muovi alla velocità della luce dato che, come tutte le altre particelle dell’universo, non hai massa. Per questo la tua percezione del tempo è assolutamente insensata, in accordo con le leggi della Relatività Ristretta.

In qualche modo sembra che il momento in cui appari e scompari dall’esistenza sia sempre accompagnato dalla presenza di una particella praticamente identica a te, o almeno questo è ciò che ti ricordi.

Ora i tempi sono cambiati (cambia tutto piuttosto in fretta quando passi da 10^{-36} a 10^{-12} secondi dopo il Big Bang). Ti accorgi che gli eventi iniziano ad avere una forma, tra un inizio e una fine c’è anche un presente.


Sei stata “rallentata” da qualcosa, e inizi a sentire il peso dello scorrere del tempo: non ti muovi più esattamente alla velocità della luce. Tra tutto quel vociare non riesci a prendere coscienza di cosa sia successo, pare che nessuno si sia accorto troppo del cambiamento, eppure inizi a riconoscere che le altre particelle non si comportano tutte come te, alcune sembrano interagire con le altre in un modo molto diverso dal tuo.

Ti viene in mente che questo possa essere connesso con l’esistenza di almeno due interazioni fondamentali diverse.

Inizi a raccogliere qualche indizio: ogni volta che scompari dall’esistenza è sempre coinvolta almeno un’altra particella. Dopo qualche tempo sei capace di individuare che esistono altre due particelle (che chiami signor “Mu” e signor “Tau”) che fanno le stesse cose che fai tu, e anche qualche particella identica a te e che per qualche motivo fa sempre il contrario di quello che fai tu.

Il signor Ni rappresenta il neutrino elettronico.

Non appena il vociare primordiale inizia a calmarsi, inizi a distinguere uno strano ronzio nelle tue orecchie “particellari”. Somiglia giusto a un timido bisbiglio, ed inizi a capire di star rallentando sempre di più la tua corsa frenetica tra un’esistenza e un’altra, forse per via di qualcosa che genera anche questo strano bisbigliare?

Decidi di chiedere informazioni a una delle particelle simili a te. C’è una particella in particolare che abbastanza spesso decide di scambiare qualche parola con te, solo che hai difficoltà a capirla perché è leggermente più frenetica. L’hai soprannominata affettuosamente “Ni”. Di solito “Ni” sembra non avere molto tempo da perdere dietro a domande sciocche come la tua, quindi decidi di chiedere al tuo vicino, il signor Mu.

L’elettrone sente molto più debolmente le interazioni con l’Higgs, al contrario delle sue cugine \mu e \tau.

Il signor Mu sembra leggermente meno frenetico, e si comporta esattamente come te: avete delle personalità così identiche che quasi vi disgustate reciprocamente, quindi di solito circolate un po’ lontano l’uno dall’altra. Tuttavia hai bisogno di informazioni, e ti prometti di parlargli non appena vi scontrerete di nuovo.

Il signor Mu ammette di essere sorpreso che tu ci abbia messo così tanto ad accorgerti del ronzio, lui lo percepisce 200 volte più forte di te.
Sa anche darti qualche informazione in più, perché di recente ha parlato con il signor Tau, il quale percepisce lo stesso ronzio quasi 20 volte più forte di lui.

Per il signor Tau non si tratta di un ronzio, ma di alcune interessantissime comunicazioni da parte del signor “H” , le quali lo invogliano a rallentare la sua corsa frenetica tra un punto e l’altro della sua esistenza, pur di ascoltare con maggiore attenzione ciò che il signor H ha da dirgli.
Non fai in tempo a fare altre domande che il signor Mu svanisce improvvisamente, lasciando il posto ad altre particelle, tra le quali riconosci il tuo amico Ni accompagnato dalla tua copia sputata.

Rimani un po’ perplesso/a dalla spiegazione del signor Mu. Pensavi fosse abbastanza scontato che te, Mu e Tau foste particelle molto simili. Perché mai il signor H si ostina a non volerti parlare a voce più alta? Perché senti a malapena un ronzio in confronto alle interessanti disquisizioni percepite da Mu e Tau?


Perché Mu e Tau svaniscono all’improvviso dopo così poco tempo, e tu sembri restare sempre la stessa, noiosa particella?

Il tempo passa e l’universo diventa più silenzioso. Ti ritrovi sempre più vicina ad altre particelle identiche a te, e inizi a condurre un’esistenza sempre più monotona, assuefatta dalle delicate parole di un interessante signore che qualcuno chiama “Nucleo”, il quale ti invita a stargli vicino.

François Englert e Peter Higgs, premi Nobel per la Fisica 2013, tra gli inventori del meccanismo che dà la massa alle particelle del Modello Standard tramite il campo di Higgs.

Impari che anche le altre particelle identiche a te non riescono a sentire nulla più di un ronzio da parte del signor H, e quindi capisci di appartenere a un’intera famiglia di particelle che sono un po’ “discriminate“.

Questo è uno degli aspetti più intriganti del Modello Standard: il modello non spiega perché il campo di Higgs interagisce più intensamente con alcune particelle e molto, molto più debolmente con altre.

In principio l’elettrone (la particella in cui ti sei reincarnato/a), il muone il tau sono creati praticamente uguali, sono tre cugini con uguale carica elettrica, spin e altri numeri quantici di interazione. Sono distinte giusto da un “cognome” di famiglia, appunto: “e”, “\mu” e “\tau“.

Elettrone, Muone e Tau: le tre particelle “cugine” del Modello Standard costituiscono la famiglia dei leptoni carichi.

Dopo la rottura di simmetria elettrodebole (per la quale rimando al mio articolo), elettrone muone e tau acquistano una massa per via dell’interazione con il campo di Higgs.
Come funziona? L’interazione si scrive in un modo molto simile a questo (le “interazioni” del Modello Standard sono la scorciatoia per dire che due campi appaiono moltiplicati tra loro nelle equazioni del modello, o moltiplicati per un mediatore comune ad entrambi):

Maggiore è la y (chiamata costante di Yukawa), maggiore è la massa acquistata dalla particella per via del campo di Higgs.
Le masse delle particelle elementari del Modello Standard. L’altezza dei parallelepipedi rappresenta la loro massa.

Il tau interagisce molto con l’Higgs, quindi la sua massa è molto più elevata di quella di muone ed elettrone. L’elettrone è quello che prende meno massa. Quanta meno? Tanta. Circa 0.3 millesimi di quella del tau, e 5 millesimi di quella del muone.

La storia non finisce qui: la particella elementare più massiva (il quark top) ha una massa che è quasi 100 volte quella del tau. Perché tutto questo “classismo” da parte del campo di Higgs? Perché sembra comunicare di più con alcune particelle e molto meno con altre?

La faccenda diventa quasi tragicomica nel caso dei neutrini (il famoso amico “Ni” della tua esperienza post-Big Bang). Si stima che la massa di un neutrino sia a sua volta quasi dieci miliardesimi di quella dell’elettrone. Questo aspetto ha suscitato uno scalpore tale da suggerire che il meccanismo di generazione della massa dei neutrini sia leggermente diverso da quello delle particelle “standard”. In particolare, il neutrino acquista massa grazie a processi sempre mediati dall’Higgs, ma che ricevono contributi da particelle non ancora osservate, che dovevano esistere da qualche parte nei primi istanti dopo il Big Bang.

Come possiamo accettare una tale differenza di trattamento? Come è possibile non restare intrigati dal carattere discriminatorio del campo di Higgs? Perché anche tra particelle praticamente del tutto simili come elettrone, muone e tau alle alte energie, c’è tutta questa discriminazione?

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Questa è una parte dei compiti della fisica teorica di questo secolo. Non penserai mica che dopo la scoperta del bosone di Higgs nel 2012 siano finiti i suoi misteri? Assolutamente no, anzi si sono moltiplicati. Il bosone di Higgs (simbolo del trionfo intellettuale della fisica teorica del secolo scorso, e del trionfo sperimentale e tecnologico del secolo corrente) è un punto di partenza, non un punto di arrivo.

Il problema della gerarchia delle masse dei leptoni carichi e dei quark rimane ad oggi un mistero per il quale sono state presentate diverse soluzioni teoriche che dovranno superare i test sperimentali del prossimo secolo.
Chi vivrà, vedrà.


PS. ho scritto un libro di testo che rappresenta proprio ciò che avrei desiderato leggere all’inizio dei miei studi di Fisica teorica, per renderla accessibile agli amatori e insegnare le tecniche matematiche necessarie a una sua comprensione universitaria. Si chiama “L’apprendista teorico” , dai un’occhiata per vedere di cosa si tratta. Il libro è acquistabile su Amazon.

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Matteo Parriciatu
Matteo Parriciatu

Dopo aver conseguito la laurea in Fisica nel 2020, studia Fisica Teorica all’Università di Pisa specializzandosi in Simmetrie di Sapore dei Neutrini, teorie oltre il Modello Standard e interessandosi di Relatività Generale.
È autore del libro “L’apprendista teorico” (2021).

“Smarriti nella matematica”? Gli ultimi tristi anni di Albert Einstein

Gli ultimi anni della vita di Einstein furono decisamente poco memorabili (scientificamente parlando). Il più grande fisico del XX secolo fu un po’ vittima dei suoi enormi successi giovanili, i quali lo condussero verso un isolamento intellettuale sempre più marcato.

Einstein sognava di unificare gravità ed elettromagnetismo in un unica, elegante “teoria del tutto”. Ovviamente nella sua epoca non si conoscevano ancora le forze nucleari debole e forte.

Uno dei motivi di questo isolamento era che Einstein rigettava la formulazione convenzionale della meccanica quantistica, che secondo lui era una teoria incompleta, esteticamente “sgraziata” e complicata.
Purtroppo il 99% della ricerca in fisica fondamentale dagli anni 20′ in poi si basava invece proprio sulla meccanica quantistica, quindi Einstein aveva ben pochi alleati su questo fronte.

Un altro motivo era dovuto a una sua ossessione: aveva il sogno di unificare due forze fondamentali, gravità ed elettromagnetismo. Queste due forze erano descritte da quelle che allora erano due teorie classiche di campo molto mature (classiche nel senso che non erano “quantizzate”. La quantizzazione dell’elettromagnetismo fu accuratamente ignorata da Einstein…)

Questa sua ossessione si fondava sul credere che la Natura avesse in serbo una teoria “elegante”, scritta con una matematica “bellissima” che lui era intenzionato a scoprire.


Effettivamente le teorie classiche di gravità ed elettromagnetismo erano due teorie, per certi versi, abbastanza simili (almeno nei temi).

Infatti la Relatività Generale di Einstein e l’Elettrodinamica classica possono essere entrambe costruite richiedendo che le loro equazioni rimangano invariate dopo che si eseguono certi tipi di trasformazioni sui loro campi fondamentali.

La ridondanza elettromagnetica

Il potenziale elettromagnetico quadri-dimensionale con cui viene formulata l’elettrodinamica (che chiamiamo A_\mu) presenta al suo interno un eccesso di informazioni. Che significa? Significa che per formulare l’elettromagnetismo è sufficiente un numero inferiore di parametri teorici rispetto a quelli forniti dalla formulazione 4-dimensionale della teoria (che con successo concilia l’elettromagnetismo di Maxwell con la relatività speciale).

Da un certo potenziale elettromagnetico sono ottenibili, tramite una specifica trasformazione, una serie di altri potenziali elettromagnetici che tuttavia lasciano invariate le leggi di Maxwell scritte con il potenziale originale. Le conclusioni fisiche sono le stesse.

Questo eccesso di informazioni si traduce nella seguente affermazione: il potenziale quadri-dimensionale può essere “traslato” nello spazio-tempo di una certa quantità, e la conseguenza è che l’elettromagnetismo rimane invariato.

Le equazioni non cambiano, la Fisica è la stessa.


Il motivo di ciò fu spiegato dalla teoria quantistica dei campi: quello che succede è che il fotone (la particella mediatrice dell’interazione elettromagnetica) ha massa nulla, e questo fa tutta la differenza del mondo in relatività speciale, perché può quindi muoversi alla velocità della luce (non è un grande sorpresa per te che la luce si muova alla velocità della luce).

I parametri che partecipano alla Fisica dell’elettromagnetismo si chiamano “stati di polarizzazione” (avrai sentito parlare degli occhiali polarizzati, ecco quel “polarizzato” si riferisce alla volontà di sfruttare le polarizzazioni della luce a proprio piacimento). La polarizzazione è per convenzione la direzione di oscillazione della campo elettrico di un’onda elettromagnetica (chiamata comunemente “luce”).

Dal punto di vista teorico, gli stati di polarizzazione possono essere studiati mettendoci nel sistema di riferimento in cui la particella mediatrice è ferma. Questi stati di polarizzazione hanno a che fare con la seguente domanda: che succede se ruoto il campo della particella nel suo sistema di riposo?
Il modo in cui il campo risponde alle rotazioni ci dà un’indicazione sui suoi stati di polarizzazione.

La quantità di moto di un oggetto fermo è nulla (per definizione di oggetto fermo), quindi se ruotiamo i nostri assi cartesiani la quantità di moto rimane la stessa (cioè nulla). Che furbata, eh? Beh questa libertà di ruotare le tre dimensioni si traduce in tre possibili stati di polarizzazione della particella.

Una rotazione attorno ad un asse è specificata da due componenti su un piano. In figura stiamo ruotando attorno all’asse z. Immagina che l’asse z sia la direzione di propagazione del fotone.

Il problema con il fotone è che avendo massa nulla si muove alla velocità della luce e quindi per via della relatività speciale non c’è modo di mettersi in un sistema di riferimento in cui il fotone è fermo: per ogni osservatore la velocità della luce è la stessa! Non riusciremo mai ad andare abbastanza veloci da vedere un fotone fermo! Il valore della velocità della luce non dipende in alcun modo dalla velocità di chi la misura.

Il meglio che possiamo fare è puntare il nostro asse cartesiano nella direzione di propagazione del fotone e studiare le rotazioni dei suoi stati attorno a questo asse. Le rotazioni attorno a un asse avvengono in un piano, il quale, essendo bidimensionale, è rappresentato da due parametri invece che tre. Quindi il fotone è specificato da solo due possibili stati di polarizzazione: solo due stati su tre partecipano alla Fisica dell’elettromagnetismo.

Che ce ne facciamo del terzo parametro che non utilizziamo? Ecco cosa intendevo con “eccesso di informazioni”. In soldoni, quella libertà viene tradotta dicendo che se aggiungiamo (o sottraiamo) al potenziale elettromagnetico una certa quantità arbitraria (la derivata di una funzione che chiamiamo \Lambda), le leggi della Fisica non cambiano. A scopo illustrativo questa è la trasformazione di cui parlo:

Il potenziale viene trasformato sottraendolo alla derivata di una funzione \Lambda. In gergo si parla di “trasformazioni di gauge”.

Dalla richiesta che la fisica non cambi se al potenziale elettromagnetico A_\mu aggiungiamo quella funzione arbitraria \partial_\mu \Lambda, discende la struttura matematica (con tanto di conseguenze fisiche) dell’elettromagnetismo.

Questo concetto è molto elegante: dalla richiesta che ci sia una certa ridondanza nella descrizione dei campi della teoria, discendono le equazioni che descrivono la realtà fisica.

So che risulta astratto da capire, ma tra tutte le forme possibili che possono assumere le leggi della fisica, richiedere che rimangano invariate dopo una trasformazione dei “blocchetti” di cui sono composte vincola parecchio il numero di forme possibili in cui possono presentarsi, assieme alle conseguenze fisiche che predicono. È in questo senso che diciamo “da questa richiesta derivano le leggi della Fisica” .

Questa eleganza stregò (e continua a stregare) i fisici teorici dell’epoca. Einstein fu tra i più colpiti.
Lo colpì soprattutto il fatto che la sua teoria della Relatività Generale (la migliore teoria che abbiamo ancora oggi sulla gravità classica) si basava su un principio molto simile.

Le leggi della gravità di Einstein discendono dalla richiesta che le leggi stesse rimangano invariate se si esegue una trasformazione di coordinate. In sostanza, la Fisica non deve dipendere da che tipo di “unità di misura” stai usando, o non deve dipendere dal fatto che il tuo laboratorio risulti ruotato in una certa direzione rispetto al centro della galassia (per esempio).

A grandi distanze dalla sorgente del campo gravitazionale, che chiamiamo h_{\mu\nu}, la trasformazione di coordinate del campo (la quale viene indicata con il simbolo \partial_\mu \epsilon_\nu) ha la seguente forma:

Magari non sarai familiare con la notazione degli indici spazio-temporali \mu,\nu , ma il punto della faccenda è notare la somiglianza (chiudendo un occhio) con la trasformazione del potenziale elettromagnetico:

Elettrodinamica (sopra) e gravità (sotto) a confronto. Entrambe queste trasformazioni hanno la proprietà di lasciare invariate le leggi della Fisica.

Secondo Einstein, questa somiglianza era una chiara indicazione che doveva esistere una teoria più fondamentale in grado di racchiudere gravità ed elettromagnetismo in un unico, elegantissimo linguaggio matematico.

Risulta interessante il fatto che non fu lui ad arrivare per primo ad un possibile tentativo di unificazione. La teoria di Kaluza-Klein nacque praticamente subito dopo la Relatività Generale, ed Einstein ne rimase estasiato.

Il primo tentativo di unificazione

La Kaluza-Klein si basava sul postulato che allo spaziotempo (già 4-dimensionale) dovesse essere aggiunta un’ulteriore dimensione, portando il totale a cinque. Questa dimensione sarebbe tuttavia troppo piccola per potere avere riscontri sperimentali, e la sua utlilità consiste unicamente nel fatto che in questo modo è possibile unificare gravità ed elettromagnetismo in un’unica elegante equazione di partenza.

La quinta dimensione nella teoria di Kaluza-Klein.

Tutti noi per disegnare un punto su un foglio ruotiamo leggermente la punta della penna per tracciare dei piccoli cerchi concentrici attorno a un punto fisso. Secondo la teoria Kaluza-Klein la quinta dimensione si nasconde nel bordo di ogni cerchio che circonda ciascun punto dello spaziotempo. Questi cerchi hanno un raggio R piccolissimo, molto più piccolo di qualsiasi scala subnucleare, questo è il motivo per cui non si osservano effetti fisici di tutto ciò.

Sfortunatamente la teoria della quinta dimensione ha serie difficoltà teorico-fenomenologiche: ad esempio ignora completamente l’esistenza delle altre interazioni fondamentali come la forza debole, della quale oggi sappiamo che a una certa scala di energia si unisce alla forza elettromagnetica per formare l’interazione elettrodebole.
Chiaramente Kaluza e Klein, avendo formulato la teoria nei primi anni ’20 , conoscevano solo la gravità e l’elettromagnetismo, per cui a detta loro (e anche di Einstein) la teoria era molto promettente.

Furono proprio le scoperte delle altre due forze fondamentali (quelle nucleari debole e forte) a far cadere nel dimenticatoio la Kaluza-Klein per qualche decennio. La teoria quantistica dei campi produceva risultati a un ritmo elevatissimo, spazzando via come un’onda tutte le teorie classiche di campo.

Einstein, che si assicurava di non utilizzare le teorie quantistiche di campo nei suoi lavori, lavorò alla Kaluza-Klein fino agli inizi degli anni ’40. Il suo obbiettivo era di ottenere, dalle soluzioni delle equazioni di campo della teoria a cinque dimensioni, dei campi che descrivevano delle particelle cariche in grado di interagire elettromagneticamente e gravitazionalmente.


Il suo obbiettivo era anche quello di derivare in qualche modo anche la meccanica quantistica a partire dalla sua teoria classica (non quantizzata). Tutto questo era sempre in linea con il suo intuito che la teoria quantistica non fosse completa, e che dovesse derivare da qualcosa di classico e molto più profondo.

Una volta introdotta l’ipotesi ondulatoria di De Broglie, il fisico Klein (uno degli ideatori della Kaluza-Klein) era stato in grado di spiegare anche la discretizzazione della carica elettrica delle particelle, proprio grazie alla quinta dimensione. Einstein evitò con cura di utilizzare l’ipotesi di De Broglie, e non menzionò mai il risultato di Klein. Insomma, se non si era capito, Einstein non apprezzava la teoria quantistica.

In ogni caso, Einstein concluse che la teoria di Kaluza-Klein non era in grado di spiegare un fatto empirico importantissimo: la gravità è estremamente più debole dell’elettromagnetismo. Questo spinse Einstein ad abbandonare per sempre la teoria dopo il 1941.

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Continuò quindi a lavorare, assieme a pochissimi altri, a teorie matematiche molto astratte e con pochi risvolti empirici. L’obbiettivo era sempre quello di unificare elettromagnetismo e gravità.

Non che fosse in torto nel perseguire questa sua ricerca, dato che l’obbiettivo delle teorie di grande unificazione che studiamo oggi è proprio quello di conciliare gravità e teorie quantistiche di campo (quindi non solo gravità ed elettromagnetismo, ma gravità e le altre tre interazioni fondamentali. Per una breve esposizione delle quattro interazioni, rimando al mio articolo).

Tuttavia fu proprio il suo ostentato rifiuto delle teorie quantistiche di campo a isolarlo sempre di più dal panorama scientifico internazionale. Anche se avesse fatto in tempo ad assistere alla sua nascita, Einstein non avrebbe mai approvato il nostro Modello Standard: in tale modello lavoriamo con teorie quantistiche basate solo sulla relatività speciale, ignorando completamente la gravità e lasciandola da parte in un settore chiamato “Relatività Generale”.
Invece secondo lui la gravità doveva avere un ruolo di primaria importanza negli sforzi dei fisici teorici:

Cosa sarebbe la Fisica senza la gravitazione?

Albert Einstein

Lavorò alla grande unificazione fino all’ultimo dei suoi giorni, facendo fede sulla sua convinzione (appartenente a un pensiero illuminista oggi superato) che una singola mente umana è in grado di scoprire ogni mistero dell’universo.

Sono comunque sicuro che a lui piacesse parecchio ciò che faceva, e non poteva esserci una fine più lieta per il più grande fisico del secolo scorso: morire “smarrito nella matematica”.


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Matteo Parriciatu
Matteo Parriciatu

Dopo aver conseguito la laurea in Fisica nel 2020, studia Fisica Teorica all’Università di Pisa specializzandosi in simmetrie di sapore dei Neutrini, teorie oltre il Modello Standard e interessandosi di Relatività Generale.
È autore del libro “L’apprendista teorico” (2021).